L’Italia non parteciperà ai prossimi Mondiali, questo ormai è un fatto. Il peggior incubo di tutti i tifosi si è avverato, con la Svezia festante e gli azzurri in lacrime. Ora serve una vera e propria rivoluzione, un cambiamento tanto repentino quanto obbligato, benché le tempistiche, adesso, non siano più quelle corrette.
Non voglio entrare nel merito di quei fatidici 180 minuti; credo sia già stato detto sostanzialmente tutto dal punto e molto altro si ripeterà nei prossimi giorni, finché il caro vecchio campionato di Serie A lenirà, poco a poco, questa cocente sconfitta. Quello su cui voglio soffermarmi è il “dopo“, quel lasso di tempo che intercorre tra una fine non ancora digerita ed una sfera emotiva colpita nell’orgoglio, nel profondo.
La domanda che mi sono posto è la seguente: fino a quando si può legittimare uno sfogo dettato dall’ira? Fino a che punto è possibile empatizzare un comportamento che ha ben poco a che fare con l’umano? Una risposta io non ce l’ho, ma certamente ha a che fare con quel limite, quella linea di confine che ho cercato e cercherò per tutta la vita e che, da qualche tempo a questa parte, sto cercando di disegnare con le mie stesse mani.
E’ inaccettabile lasciar correre insulti ed offese personali, soprattutto quando si tratta di lavoro (perchè il calcio, sebbene venda e regali emozioni, rimane pur sempre -per alcuni- un lavoro), così come ritengo sia necessario un massiccio intervento di civilizzazione che debba partire dal basso, e non dall’alto come spesso si sente dire. In che modo? Comprendendo il fatto che una partita di calcio, in fin dei conti, è e rimane tale: uno sport che regala emozioni e crea relazioni, le cui conseguenze devono essere circoscritte al rettangolo di gioco.
Comprendo il fatto di essere entrato all’interno di una sfera valoriale molto delicata (e quale non lo sarebbe?), ma per fare in modo che tra 4 anni la nostra Nazionale possa partecipare nuovamente ai Mondiali è necessario quantomeno incanalare questa rabbia non tanto in critiche costruttive quanto piuttosto in affermazioni assertive. Ma bisogna crederci davvero.
I talebani del tifo ci saranno sempre, ma quando sento -o leggo- frasi come “Ventura devi morire” oppure “Quelli che hanno giocato la gara d’andata devono marcire in galera, quelli in panchina invece li salvo” o peggio ancora “Ventura e Tavecchio infami”, se permettete, ho i brividi lungo la schiena. Gli insulti gratuiti alla persona mi fanno disinnamorare di questo sport in cui credo e che, in fin dei conti, mi ha dato da mangiare.
Ma soltanto per un attimo: perchè poi tutto questo lascia spazio alla volontà ancora più forte di trovare e far vedere un senso formativo che va ben oltre 22 persone che rincorrono una palla. A prescindere da chi vince e chi perde.
Credo nelle persone e nella salvaguardia della loro dignità, quindi sì, Italia-Svezia per me era soltanto una partita di calcio. E sì, quest’estate seguirò i Mondiali con meno partecipazione rispetto a quelli passati, mi mancherà anche la quell’aggregazione che si crea quando gli azzurri giocano e lottano per un obiettivo, ma questo è soltanto un problema mio e tale deve rimanere.