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Baggio al Brescia, Mazzone ricorda: “Gli avevano fatto terra bruciata”

Una delle storie di amore paterno che si è instaurato fra un allenatore ed un suo calciatore più idilliache del nostro calcio è sicuramente quella fra Carlo Mazzone Roberto Baggio. Il passaggio del ‘Divin Codino’ a Brescia ha lasciato nei lombardi un segno indelebile.

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L’iconico allenatore romano ha creato con il protagonista indiscusso dei mondiali del 1994 in USA un rapporto straordinario, che si è tradotto quasi in maniera inevitabile nelle grandi prestazioni di Baggio con le ‘Rondinelle’. Mazzone ha voluto ricordare com’è nata l’idea di portare il ‘divin codino’ a Brescia e come ha fatto a realizzarla. Per farlo ha usato un post sul suo profilo ‘Instagram’, niente male per un 82enne.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

“Un giorno apro il giornale e leggo che la Reggina sta trattando Baggio. Telefono a Cesare Medori, un amico di Roberto, una cara persona che non c’è più e gli chiedo: “Ti chiedo un piacere, chiamalo e fammi parlare con lui”. Baggio mi disse che era vero ma che non era convinto perché non voleva allontanarsi dalla famiglia. Colsi al volo l’opportunità e gli chiesi: “Ti piacerebbe giocare a Brescia?”. Roberto rispose: “Magari”. Saltai in macchina, andai nell’ufficio del presidente Corioni e gli proposi: “Perché non portiamo Baggio a Brescia?”. Corioni ci pensò un attimo e rispose: “Baggio è come il cacio sugli spaghetti”. Roberto stava allenandosi a Caldogno, con il suo preparatore personale. Mi raccontò “Dribblo il mio preparatore e davanti ho il deserto”. Questa è la storia dell’emarginazione di Roberto Baggio. Perché fu emarginato? Dicevano che era rotto. Un paio di allenatori importanti gli avevano fatto terra bruciata. Cattiverie… Da anni Roberto aveva un ginocchio che lo faceva tribolare, ma si curava. Si presentava agli allenamenti un’ora prima per fare fisioterapia e potenziamento ed era l’ultimo ad abbandonare il campo. E poi le partitelle con lui diventavano poesia… Che cosa ha rappresentato Baggio nella mia carriera? Mi ha reso bello il finale. Sono stato un allenatore fortunato: vivere il tramonto della mia professione con lui è stata una magnifica esperienza. È stato difficile gestirlo? Gestire Robi è stata una passeggiata. Era silenzioso, educato, rispettoso, umile. Non ha mai fatto pesare la sua grandezza. Era un amico che mi faceva vincere la domenica. Baggio è stato uno dei più grandi calciatori italiani di sempre. Ma è stato più grande come uomo. Sì, lo posso dire: l’uomo supera il giocatore…”

Un post condiviso da Carlo Mazzone (@carlomazzone795) in data:

“Un giorno apro il giornale e leggo che la Reggina sta trattando Baggio. Telefono a Cesare Medori, un amico di Roberto, e gli chiedo: ‘Ti chiedo un piacere, chiamalo e fammi parlare con lui’. Baggio mi disse che era vero ma che non era convinto perché non voleva allontanarsi dalla famiglia. Colsi al volo l’opportunità  e gli chiesi: ‘Ti piacerebbe giocare a Brescia? Roberto rispose: ‘Magari’. Saltai nella macchina e andai nell’ufficio del presidente Corioni”.

Nel post di Mazzone, però, l’accenno a due allenatori molto importanti dell’epoca che avrebbero a suo dire ‘fatto terra bruciata’ attorno ad un campione come Roberto Baggio non passa inosservato. Le parole dell’ex allenatore del Brescia spiegherebbero come un calciatore soprannominato ‘Raffaello’ per la sua capacità di tirare fuori l’arte da un pallone di cuoio abbia finito la propria carriera in una squadra la cui ambizione era quella di non retrocedere. 

“Questa è la storia dell’emarginazione di Roberto Baggio. Dicevano che era rotto. Un paio di allenatori importanti gli avevano fatto terra bruciata. Roberto mi raccontò: ‘Dribblo il mio preparatore e davanti ho il deserto’. Cattiverie.. Da anni Roberto aveva un ginocchio che lo faceva tribolare, ma si curava. Si presentava agli allenamenti un’ora prima ed era l’ultimo ad abbandonare il campo. E poi le partitelle con lui diventavano poesia”.

La sconfinata stima di Mazzone per Baggio lo porta a scontrarsi con quegli allenatori che, invece, non vedevano più di buon occhio una figura ingombrante come il fantasista cresciuto nel Lanerossi Vicenza. Il pallone d’oro del 1993, con il suo smisurato talento, accentrava tutte le attenzioni su di sé e per alcuni allenatori diventa un problema magari per l’equilibrio della squadra oppure per la voglia narcisistica di essere loro al centro della scena.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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