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Un giorno a Elland Road: Leeds United-Swansea City

Abbiamo seguito la capolista della Championship nel turno infrasettimanale: storia e tradizione in uno degli stadi più longevi d’Inghilterra.

 

di Stefano Ravaglia

 

Le campagne dell’East Midlands sfoderano il loro verde in una giornata insolitamente serena. Qualche velatura non impedisce di apprezzare la giornata soleggiata e per nulla rigida. Il treno fende quelle campagna in direzione Yorkshire, in direzione Leeds, e me ne sto appollaiato con la testa sul finestrino a guardare fuori l’Inghilterra che mi scorre intorno. Di wednesday off, il mercoledì libero dagli allenamenti, usanza d’oltremanica, oggi proprio non se ne parla. A Elland Road c’è una partita, Leeds-Swansea, un altro capitolo di un campionato incertissimo con gli whites che dopo essere stati a lungo al comando sono stati sopravanzati dal Norwich, distante comunque solo due punti. Grave mancanza: nella mia valigia ho dimenticato Il maledetto United, capolavoro di David Peace che da queste parti, oltre alle vicende di Brian Clough e dei suoi quarantaquattro giorni al Leeds, ha ambientato anche numerosi gialli e thriller. Il treno corre da un paio d’ore, ha superato Leicester e Barnsley, e ora si appresta a fermarsi dentro il suo capolinea: una città universitaria, con diversi musei, fervente come una piccola Londra e una squadra che insegue il ritorno in Premier League dopo quattordici anni di assenza.

Il mio b&b è dall’altra parte rispetto a Elland Road. Mi incammino verso il centro, bella scarpinata, e poi da lì in taxi verso Holbeck, il quartiere dove sorge l’impianto dei whites. Il tassista è di molte parole, e così gli racconto della mia passione per il football, del mio amore per l’Inghilterra e gli dico che tanti italiani viaggiano spesso oltremanica per poter vivere le impagabili emozioni del british football, seppur sia qualcosa di diverso rispetto a trenta o quarant’anni fa. Sono quasi le cinque del pomeriggio e il sole inizia già a tramontare. La East Stand, che sarà il mio settore, e dove a pochi metri faccio fermare il taxi, mostra solo i suoi contorni d’ombra davanti a quel cielo dorato che sta per lasciar spazio alla serata. Mi incammino come ci si tuffa da un trampolino per immergersi in piscina, o come un bambino che sta per entrare al Luna Park. Le cose da fare sono parecchie, e la prima è il ritiro dei biglietti: nessun documento, nemmeno il tuo nome e il tuo cognome, basta la mail di conferma e il gioco è fatto. Quel bambino ora è come abbia ricevuto la busta dei soldini dalla nonna: apro l’involucro e dentro c’è la chiave d’accesso a un impianto bellissimo e ricco di storia. Non c’è tantissima gente ancora, mancano quasi tre ore al match, ma di cose da fare ce ne sono, per passare il tempo. La parete della North Stand racconta la storia del Leeds: il primo campionato nel 1969, il titolo nel 1992, le cavalcate europee del 2000 e del 2001 quando la squadra arrivò in semifinale sia in Uefa che in Champions League. Johnny Giles, Billy Bremner, e soprattutto lui, Don Revie. Il manager che prese per mano la squadra e la condusse al periodo più florido della sua esistenza. Una storia che quest’anno raggiunge un traguardo particolare: il Leeds festeggia i cento anni, e per gli standard inglesi è una squadra relativamente “giovane”. Pub e programma della partita sono le prossime due tappe. Dopo aver trangugiato qualcosa e prima di darmi alla birra, scorgo una attrazione di quel parco giochi che per un calciofilo come il sottoscritto è manna dal cielo. Tre appassionati signori mettono in vendita tutti i programmi della storia del Leeds. Coppa di Lega, First Division, coppe europee, e quant’altro, addirittura venduti in blocchi stagionali. Studio la situazione e so già che ne verrò fuori a mani piene, ma la scelta deve essere oculata. Bando alle ciance ora, è il momento di incontrare di nuovo due vecchi amici: malto e luppolo. L’Old Peacock è il pub che si staglia di fronte all’impianto, che un tempo portava proprio la stessa denominazione: Old Peacock Ground. Al mio ingresso, una guardia sulla porta vuole vedere il mio biglietto, per assicurarsi che non stiano entrando tifosi ospiti.

Entrare all’Old Peacock è come entrare in un piccolo museo della storia del Leeds: addirittura la carta da parati che ricopre i muri è un racconto della storia del club e dei suoi cimeli. Foto di tutti i più importanti protagonisti sono appesi a quelle pareti, compreso Gordon Strachan, che in campo vinse il titolo del 1992 e poi in panchina allenò, tra gli altri, anche il Celtic. Una foto rapisce più di altre: è la carrellata di tutti gli stemmi cuciti sulla maglia del Leeds dalla sua fondazione ai giorni nostri. Sotto la East Stand, la tribuna principale, sulla quale facciata sono impressi nome e logo del club a caratteri cubitali, c’è un invece uomo che osserva impassibile quello che fu il suo stadio: è Don Revie, di cui sopra, al quale è stata eretta una statua a imperitura memoria. Opera dello scultore Graham Ibbeson, è stata scoperta il cinque maggio del 2012, dai membri reduci dalla vittoria in FA Cup di quarant’anni prima, nel 1972. Un tizio si avvicina e mi chiede se conosco Don Revie, ottenendo ovviamente risposta affermativa. Mi chiede da dove vengo e dove sarei andato l’indomani. Appena gli dico la mia città di origine, osserva una immaginaria cartina e seguendo le mie indicazioni, comprende. E mi lascia infine con un “Good game!”. Da una statua all’altra: la folla intorno a Elland Road inizia a incrementare e tutti si radunano alla Billy Bremner Square, l’angolo tra la East Stand e il negozio dei prodotti ufficiali del club, dove si staglia la figura dell’ex capitano a braccia alzate di bianco vestito e con la maglia numero 4. Ai suoi piedi, sciarpe e bandiere, e addirittura anche dai suoi polsi pendono vessilli bianco-giallo-blu, i colori del club. É quasi un monumento ai caduti, perché ai suoi piedi, i suoi ferri del mestiere, giacciono corone di fiori che i tifosi dedicano ai loro familiari e amici scomparsi. Ma la grande peculiarità sta nella pavimentazione intorno alla base della statua: tutte mattonelle dove sono incisi, ed è una usanza diffusa in Inghilterra, possiamo trovarle tra gli altri anche all’Emirates dell’Arsenal o a Selhurst Park, casa del Palace, tutti i nomi di tifosi e amici del Leeds che hanno voluto lasciare inciso ai piedi dello stadio la loro dedizione alla causa. Prima di una seconda birra all’Old Peacock, questa volta molto più pieno di prima e nel quale l’allegro chiacchiericcio si fa più vibrante, ripasso dagli uomini dei programmi: ha preso il sopravvento la mia fede milanista, e chiedo dunque ai signori se hanno i programmi di tre sfide in cui i rossoneri hanno incrociato gli inglesi. Nel 2000, in Champions League e nel 1973 in finale di Coppa delle Coppe. Mi tirano fuori tutti e tre i programmi: l’8 novembre di diciannove anni fa ero presente a San Siro, e dopo un tempo così lungo decido di acquistare il programma di quella partita, cosa che non feci quella sera. Inavvicinabile invece il programma della finalissima europea: trecento sterline. Rientro all’Old Peacock e questa volta il chiacchiericcio è più fitto e c’è meno spazio per muoversi con la pinta. Pile di bicchieri vuoti fanno lo slalom tra i tifosi, un paio di loro discutono davanti alla grande foto del Leeds di Don Revie appesa al muro, sotto la quale campeggiano tutti gli stemmi della storia del club. Anche la statua di Bremner riceve ancor più numerose visite, ma dopo essermi rifocillato e aver fatto un salto nel grande negozio del club per fare mia la seconda maglia del Leeds, tutta gialla, direi che è giunto il momento di entrare: calcio d’inizio fissato per le 19.45.

Nessun controllo, nessuna perquisizione, men che meno il prefiltraggio. Così come nelle mie precedenti esperienze britanniche, si entra in tutta libertà, senza le angherie italiane con rallentamenti e imprecazioni annesse. La pancia dell’Elland Road è ampia e ben organizzata, con i televisori ad aggiornare i tifosi sulle ultime notizie e un ordine generale per quanto riguarda la ristorazione e la disposizione di tavoli e banconi. Un piacere per gli occhi e per l’ambiente. Sono in alto, molto in alto, almeno cinque o sei rampe di scale: la East Stand mi accoglie al settore W, il terz’ultimo. Il suo tetto sovrasta l’intera struttura dell’impianto, ma la visuale è ottima. Marching On Together è il grido di battaglia, e l’inno che risuona all’ingresso in campo di Leeds e Swansea, e abbiamo anche il tempo di applaudire la memoria di Gordon Banks, estremo difensore della Nazionale campione del mondo del 1966. I primi venti minuti si sonnecchia, poi segna Jansson per i padroni di casa e la partita si apre. Per la verità è un pressoché totale dominio del Leeds, che segna il 2-0 con Harrison prima dell’intervallo. Nella ripresa la squadra di Bielsa va vicina al gol più volte, e poi lo Swansea beneficia di un rigore per una ingenuità colossale di un difensore accorciando le distanze. Un match che appariva chiuso è improvvisamente riaperto, con i quattro minuti di recupero che diventano thriller puro. It’s finished! It’s finished! urlano intorno a me, e la tensione è fuori da ogni previsione. Fin quando il direttore di gara non decreta la fine, e in sottofondo, unito allo sventolio di sciarpe, ancora Marching On e We all of Leeds. Nel frattempo, erano arrivate ottime notizie anche da Preston: il Norwich, secondo, in contemporanea era caduto 3-1. Son venuto fin quassù nello Yorkshire e ho portato bene: i bianchi si riprendono la testa della Championship, augurandosi di non mollarla più sino a maggio. Io esco e mi confondo nella folla, intrufolandomi dentro un altro taxi che mi riaccompagna all’albergo. Emozioni forti, e non poteva essere altrimenti, nella patria del football. Ora, fatemi andare in camera per metterle tutte in valigia.

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