Booker

Devin Booker, 179 punti per chi?

70, 59 e 50. No, non si tratta dei numeri estratti al lotto o in qualche partita a tombola fra parenti e nemmeno di un compito di matematica di prima elementare sulle addizioni. 70, 59 e 50 sono i massimi in carriera per punti fatti registrare finora da Devin Booker nella sua ancor breve esperienza in NBA.

Le ultime due cifre in particolare sono state realizzate dal figlio di Melvin rispettivamente nella penultima e ultima uscita stagionale dei suoi Phoenix Suns, formazione anche quest’anno dedita più a svezzare, a far crescere i propri giovani e alla sconfitta che ad inseguire un piazzamento di rilievo nella super competitiva Western Conference. Secondo peggior record della lega (migliore solo rispetto a quello dei New York Knicks ad est) e reduce da cinque sconfitte negli ultimi sei incontri, in poco più di 48 ore la compagine del Nevada grazie alla propria giovane stella si è guadagnata più volte titoli e spazi nei media di riferimento di tutto il mondo ma non ha assolutamente invertito il trend, dato che in entrambi gli scontri contro Utah e Washington sono arrivati due k.o.

Il binomio sconfitta-grande prestazione realizzativa del proprio numero uno beffardamente per i Suns non è una novità: anche due anni orsono, quando nella stagione da sophomore Booker ne mise addirittura 70 (sesto di tutti i tempi ad arrivare a quella quota, più giovane di sempre a riuscirci) contro i Boston Celtics al Garden, Phoenix non trovò la vittoria, esultando “solo” per la tanto incredibile quanto storica prestazione balistica del nativo di Grand Rapids.

Devin Booker in azione contro i Celtics al Garden (fonte: zimbio.com)

Già, perché che il prodotto di Kentucky sia dotato di talento offensivo e sappia mettere quando voglia ingenti quantità di punti a referto ormai non è un mistero e, nel caso mai qualcuno avesse avuto ancora qualche dubbio, martedì e giovedì l’ha ribadito chiaramente. Naturalezza al tiro, capacità di finire al ferro e varietà di soluzioni sono sotto gli occhi di tutti e possono far davvero paura se per un attimo ci si ferma a guardare la carta d’identità del ragazzo che recita, alla voce data di nascita, la dicitura 30 ottobre 1996 (22 anni).

Proprio partendo da questo aspetto allora, viene da chiedersi come e se queste memorabili serate in attacco, giunte in circostanze particolari e contesti meritevoli di più di una riflessione, possano incidere in prospettiva sul futuro in campo di quella che è stata la tredicesima scelta assoluta al draft 2015.

Booker stringe la mano al commisioner Stern il giorno della sua chiamata al draft (fonte: zimbio.com)

A tal proposito, mettendo in ordine numeri e considerazioni, il primo minimo comune denominatore delle tre performance in oggetto è che queste siano state realizzate, seppur in annate differenti, tutte nel medesimo periodo, ovverosia nella settimana conclusiva del mese di marzo (il 24 contro Boston, il 25 contro i Jazz e il 27 contro i Wizards), in un momento clou quindi della stagione NBA dove tuttavia, a seconda delle rispettive classifiche, nelle squadre (e di conseguenza negli atleti) si ravvisano due diversi tipi di atteggiamento.

Da un lato ci sono coloro che lottano per i playoff, che sono spinti da una grande motivazione e producono importanti sforzi psico-fisici alla ricerca di vittorie decisive e condizione migliore; dall’altro invece c’è chi, avendo perso più o meno precocemente il treno per la post-season, ha poco o nulla da chiedere alle gare conclusive previste fra marzo e inizio aprile e perciò procede apaticamente tra tanking in ottica draft e quintetti con atleti poco impiegati o giovani desiderosi di mettersi in evidenza per strappare buone impressioni e promesse economiche per l’anno avvenire.

Booker, nonostante sia giovane, non rientra in questa casistica avendo firmato coi Suns lo scorso luglio un prolungamento quinquennale a 158 milioni di dollari, ma tuttavia è indubbio che, nel 2017 come nel 2019, abbia sfruttato la situazione in seno alla propria formazione per “esplodere” e mandare in archivio non solo delle singole prove di primissimo livello ma in generale dei rimarchevoli mesi di marzo.

Devin Booker con la maglia numero 1 dei Suns (fonte: zimbio.com)

Prendendo in esame le quattro stagioni fin qui disputate infatti, in ben due di queste (quella da rookie, e quella attualmente in corso) marzo è stato il mese più prolifico con una media punti mensile decisamente superiore a quella annuale (al momento Booker viaggia a 33 di media nel mese di marzo, 6,5 in più rispetto alla media stagionale complessiva) mentre in un’altra (la 2016/17) è stato il terzo più produttivo dietro ad aprile e gennaio. Questa tendenza, questa capacità di salire di colpi quando la stanchezza per le fatiche di un anno intero in generale inizia ad affiorare, di per sé non sono negative anzi, possono essere sintomo di un certo qual fondo e una certa qual resistenza agli sforzi e alle tensioni a cui sono costantemente sottoposti gli atleti della lega.

È anche vero però, volendo essere più critici, che un andamento del genere può indicare come il ragazzo debba fare ancora diversi passi in avanti a livello di maturità e soprattutto di continuità, un obiettivo che col passare del tempo, delle partite e conoscendo meglio sé stesso e i proprio compagni Booker certamente raggiungerà.

Nel frattempo, il ventiduenne del Michigan si appresta a chiudere anticipatamente un altro anno dove anche il suo contributo, ondivago e altalenante, alla fine è stato un fattore nell’escludere anticipatamente Phoenix (in Nevada non vedono i playoff dalla lontana stagione 2009/10 quando addirittura arrivò una finale di conference poi persa contro i Lakers futuri campioni NBA) da qualsiasi ambizione di gloria.

Coach Igor Kokoskov (fonte: zimbio.com)

Anche se fin dall’inizio il compito per la squadra di coach Kokoskov sembrava improbo e le prospettive di un’altra prima scelta di peso erano decisamente più alla portata e allettanti, i Suns forse con un rendimento più costante da parte del proprio numero uno avrebbero quantomeno potuto dare qualche segnale incoraggiante in più per il futuro e magari rinviare l’appuntamento col tanking e con la rassegnazione per un’altra stagione di attesa.

Così invece già a fine febbraio (con più di 20 gare ancora da giocare) ogni possibile speranza di accedere ai playoff è svanita e, mentre il management del team ha virato subito le proprie attenzioni sul draft e sulla free agency di luglio, alla squadra in campo sono rimaste da disputare niente più che delle semplici esibizioni con lo scopo di evitare figuracce e mostrare lampi del talento interno al roster.

In tali condizioni, dove tutto è più leggero e la palla senza il peso di un obiettivo da raggiungere a tutti i costi pesa meno, Booker ha trovato modo di emergere e di spiccare nuovamente tra i compagni proprio come nel 2017, approfittando, tra l’altro, delle assenze di diversi giocatori infortunati che hanno consentito al vincitore della gara del tiro da tre punti del 2018 di usufruire di un maggior numero di possessi e di potersi prendere un maggior numero di tiri.

La delusione di Devin Booker dopo una sconfitta dei suoi Suns (fonte: zimbio.com)

Tutto ciò, sia chiaro, non si traduce automaticamente in punti senza classe, forza e aggressività sui 40 minuti, componenti che un grande realizzatore deve necessariamente avere nel proprio bagaglio tecnico e che indubbiamente devono essere allenare per poter fare la differenza, cosa che Booker ha confermato di aver fatto in estate anche nelle recenti interviste rilasciate dopo le sue ultime due mostruose uscite.

In queste, oltre alle qualità individuali, al desiderio di “dare spettacolo per i tifosi” e all’ “amore per il gioco”, nondimeno rilevante è stato il ruolo dei compagni di squadra e dell’allenatore, i quali hanno (neanche troppo velatamente) giocato per lui ogni qual volta ce ne fosse occasione con scelte anche decisamente poco apprezzate da rivali e tifosi avversari: contro Utah, ad esempio, su caloroso invito dei suoi ragazzi (Jamal Crawford su tutti) Kokoskov è stato spinto a rimettere in campo Booker per fargli arrotondare il bottino di punti realizzati e, per far ciò, sono stati diversi i falli intenzionali commessi (cosa già vista contro Boston nel 2017) per fermare il cronometro e consentire al proprio uomo franchigia di aver ulteriore tempo per trovare altri canestri.

Se almeno contro Washington (dove Booker ha promesso all’intervallo a suo fratello che ne avrebbe fatti cinquanta) la partita è stata in bilico e la scelta di puntare sul figlio di Melvin era giustificata dal risultato in bilico e dalla posta in palio (la vittoria), contro i Jazz questi accorgimenti sono stati adottati solo ed esclusivamente per inseguire delle cifre e dei record in una gara dall’esito già ampiamente deciso a diversi minuti dalla fine e priva di reali motivi agonistici e competitivi.

Un dettaglio del rilascio di Booker (fonte: zimbio.com)

Alla luce di tutto questo, tralasciando l’impatto che queste due prove realizzative avranno nella storia del gioco e della franchigia del Nevada, sorgono spontanee alcune domande: può aver tutto ciò aver costituito un momento di vera crescita per Booker e i suoi compagni? Può tutto ciò aver contribuito a formare una mentalità e una vera cultura vincente in un roster e una franchigia che è in evidente fase di ricostruzione? Può la costruzione di una squadra e della sua identità essere migliorata grazie a episodi e perseguendo target come questo?

Booker ha dimostrato anche a coloro che lo ritenevano un semplice tiratore di essere qualcosa di più, di essere una futura stella e (forse) leader di questa squadra. Ha dimostrato di poter segnare 50, 60, anche 70 punti in una singola gara ma chi, tra quelli che gli stanno attorno, avrà tratto giovamento dal raggiungimento di questi numeri?

In queste gare i compagni si sono messi a totale disposizione del proprio leader mentre gli esempi, recenti e non, nella pallacanestro americana hanno visto un leader che, per vincere, ha fatto dei passi indietro a livello individuale comprendendo di dover mettere sé stesso e le proprie qualità al servizio dei compagni, coinvolgendo e facendo rendere tutti al meglio delle proprie possibilità.

Booker impegnato contro la difesa di Golden State (fonte: zimbio.com)

Questa caccia al record, al numero tondo, a voler forzatamente entrare nei libri di storia insomma ha dunque alla base il ribaltamento di una filosofia (non scritta) vincente. Come può perciò il raggiungimento di questi record aver aiutato Booker nella sua crescita come leader della squadra? In questo senso forse non è un caso che tutte e tre le sue più grandi affermazioni individuali, dove un cognome e un ego per quanto talentuoso che sia hanno preso il sopravvento su qualsiasi logica di squadra, siano coincise con una sconfitta collettiva.

Solo il tempo e le esperienze che lui, come giocatore e leader di Phoenix, vivrà sulla propria pelle diranno se sarà stato in grado di incanalare correttamente il suo straordinario potenziale offensivo e ridare credibilità alla franchigia, rispondendo così a questi e altri interrogativi simili che inevitabilmente sorgono in occasione di ripetute prove individuali di questa portata. Intanto mancano sei gare alla fine di questa fallimentare stagione e Booker, che ha dichiarato che “È ora di essere più aggressivo” e “Ogni gara è nuova opportunità”, parrebbe intenzionato a non fermarsi, pur con gli occhi di tutti addosso, avversari, amanti delle statistiche e scettici compresi.

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