Finals

Finals 2019: tanti dubbi, poche certezze

Dopo tre anni con le stesse squadre protagoniste dell’ultimo atto del campionato NBA, la vigilia delle Finals 2019 era stata caratterizzata da una curiosità e un interesse che da un po’ di tempo non si vedevano così accese, a maggior ragione in seguito al netto (e per molti scontatissimo) 4-0 con cui i Warriors hanno travolto i Cleveland Cavs nella passata stagione.

Quest’anno la sorte ha portato in dote ai bicampioni in carica una nuova e poco pronosticata sfida, quella ai nuovi e determinati Toronto Raptors, una compagine carica di entusiasmo e capace di trovare turno dopo turno quella chimica e quella grinta utili per vincere per la prima volta nella loro (breve) storia la Eastern Conference e candidarsi come ostacolo assai fastidioso per i californiani nella rincorsa al loro quarto titolo degli ultimi cinque anni.

Molto pochi però credevano che, alla fine delle ostilità, ad alzare al cielo il Larry O’Brien Trophy sarebbe stata la formazione canadese guidata in panchina da Nick Nurse (coach al primo anno nella posizione di capo allenatore), superlativa nello schiantare la resistenza dei gialloblù imponendosi per 4-2 e soprattutto sbancando per tre volte consecutive la Oracle Arena.

I Toronto Raptors alzano al cielo il trofeo destinato ai vincitori (foto: zimbio.com)

L’esito quindi è da considerarsi in gran parte come una sorpresa, una conclusione inaspettata, un fatto inatteso ma inappellabile concretizzatosi in mezzo a una densa nuvola di dubbi che ha circondato la serie fin dal suo principio e che ancora, dopo che i “dinosauri” si sono abbondantemente rigenerati con fiumi di spumante, è tornata ad avvolgere i destini non solo di entrambe le squadre avversarie in finale ma anche dell’intera lega.

Sono infatti tantissimi i punti interrogativi e gli scenari aperti dal classico “what if” che, quasi automaticamente, sono sorti prima, durante e dopo i match che hanno contraddistinto la contesa conclusiva fra Toronto e Golden State.

Il primo, il più grande, il leitmotiv che più di tutti ha accompagnato lo svolgimento delle ultime Finals è stato il recupero dall’infortunio occorso a Kevin Durant durante il secondo atto di questo postseason contro gli Houston Rockets. I Warriors, superato lo scoglio texano e quello dei Portland Trail Blazers, si auguravano di poter riabbracciare e avere pienamente competitivo il proprio numero 35 per il momento più atteso dell’anno e invece, forse per una diagnosi parzialmente errata, per le comunicazioni ambigue o anche per la tanta pressione messa di giorno in giorno sullo stesso giocatore, la banda di Steve Kerr si è trovata ancora priva del proprio leader maximo quando più contava di giovarsene.

Durant a terra in gara 5 (foto: forbes.com)

La situazione, con i Raptors freddi e lucidi nel mettere a nudo le difficoltà offensive e difensive dei Warriors come la pochezza di molte loro alternative, è progressivamente scappata di mano alla banda di Steve Kerr, messa alle spalle al muro dopo quattro gare e una sola illusoria vittoria fuori casa. Lì Durant, additato da molti come poco coraggioso e attento solo a preservare la sua salute in vista della free agency estiva, ha adoperato una scelta lodevolissima sportivamente parlando ma pericolosissima da un punto di vista medico, quella di forzare il rientro in campo in gara 5 per dare una mano ai suoi compagni in difficoltà.

La decisione si è rivelata drammatica per i Warriors che, dopo poco dall’inizio di quell’incontro, hanno visto nuovamente accasciarsi a terra KD35 con un tendine d’Achille rotto mentre una grossa parte delle proprie speranze di confermarsi campioni andava in frantumi. Il fatale accadimento infatti, questa volta, ha privato in maniera definitiva la squadra del perno fondamentale dei recenti successi, lasciando tutto il peso delle rimanenti responsabilità nelle mani di Steph Curry (quella sinistra per la verità piuttosto malandata) e nella solidità di Klay Thompson, quest’ultimo però anche lui messo alla prova da inconvenienti fisici e poi sfortunatamente costretto ad abbandonare i compagni in gara 6.

Il momento dell’infortunio di Klay Thompson (foto: zimbio.com)

Colpito da un infortunio al bicipite femorale in gara2, in gara 3 (poi persa) il figlio di Mychal è stato sacrificato dallo staff medico di Golden State (già alle prese con il “caso” Durant) e lasciato precauzionalmente a riposo per averlo al meglio nelle partite successive, soluzione che ha pagato i suoi dividendi specialmente in gara 5 quando il numero 11 è risultato decisivo per riportare la serie alla Oracle.

Qui però, come coda dell’impressionante serie di eventi avversi che si è abbattuta sui californiani, il prodotto di Washington State ricadendo male dopo una schiacciata si è fatalmente rotto il legamento crociato del ginocchio, provando stoicamente a tenere duro come se niente fosse ma vedendosi forzato dopo poco a fare i conti con la brutale realtà: in quel momento, senza due dei propri giocatori chiave, con un Kevon Looney anche lui eroicamente alle prese con una frattura della cartilagine dello sterno e con un supporting cast troppo a lungo insufficiente, Golden State ha alzato idealmente bandiera bianca.

Non è certo (anche se ha tutta l’aria di esserlo) se senza infortuni i Warriors avrebbero fatto loro il settimo titolo della storia della franchigia. Quello che è sicuro è che Toronto avrebbe dovuto fronteggiare tutto un altro fuoco offensivo e tutta un’altra coesione difensiva, trovandosi probabilmente a far molta più fatica in entrambe le metà campo.

La panchina dei Warriors durante le ultime finali: spicca un Kevon looney più che acciaccato (foto: sfgate.com)

È opinione di molti addetti ai lavori che, sostenendo punti di vista più radicali, i Raptors non avrebbero avuto una singola chance in queste Finals e che i gialloblù, pur con qualche difficoltà in più rispetto ai Cavs 2018, avrebbero avuto la meglio sulla squadra che ha avuto il vantaggio-non vantaggio (in ben cinque occasioni su sei ad imporsi è stata la formazione ospite) del fattore campo.

Questo rimane il dubbio più grande a cui non avremo mai una risposta certa. Quello che invece è sicuro è che i Raptors erano più lunghi, estremamente affamati e molto stimolati dalla possibilità di giocarsi in finale le proprie chance di mettere per la prima volta le mani su un qualcosa che qualche stagione fa sembrava quasi un’utopia. Molto cinicamente i ragazzi di Nurse hanno approfittato al meglio, come qualunque formazione avrebbe fatto, delle circostanze che improvvisamente si sono venute a creare intorno ai rivali, aggrappandosi a un giocatore che ha ribadito di essere tra i più forti e freddi del pianeta (Kawhi Leonard) e alla voglia interiore di stupire di alcuni suoi emergenti a questo livello, da Pascal Siakam a Fred VanVleet.

Fred Van Vleet esulta: il titolo NBA ormai è canadese (foto: zimbio.com)

Le loro performance, la loro abilità nel farsi trovare ciascuno pronto quando più serviva (assieme al grande lavoro fatto dallo staff tecnico nel preparare e reagire al meglio agli scenari che hanno preso forma in queste settimane) sono avvenimenti concreti, realmente accaduti e insindacabili, differenti dalle trame prodotte dai numerosi dilemmi a cui, alla stregua di un articolato quanto inutile gioco mentale, si può provare a rispondere.

La maggior parte di questi ruotano attorno al gravissimo incidente capitato a Durant: cosa sarebbe successo con lui in campo? È stato più lui a voler forzare il rientro o più la squadra? Lo staff medico gli avrà detto che rischiava di aggravare la situazione? Cambieranno i rapporti interni tra lui, la società e i medici della squadra dopo quanto accaduto? Sarebbe davvero rientrato se non fosse stato pungolato dai media e dai pensieri della gente sul suo conto? I compagni gli avranno chiesto di forzare?

Kevin Durant si concentra prima di un match: quella appena passata potrebbe essere stata l’ultima stagione in maglia Golden State (foto: zimbio.com)

A tutte queste perplessità si può provare a replicare con quello che la franchigia e chi è vicino a questa ha fatto trapelare ma la verità (se non forse tra qualche anno) difficilmente la sapremo e quindi varrebbe la pena concentrarci su quanto visto e sul rendere onore al primo anello “non statunitense” (a proposito chissà quanto avranno influito le esperienze maturate in Europa dallo stesso Nurse e i suggerimenti dati da un allenatore di mentalità europea a tutti gli effetti come Scariolo), evitando il più possibile (ma questo è più difficile vista ora l’assenza di competizioni) i discorsi sul futuro che sono anch’essi ricchi di incertezze.

La competitività di Golden State nel 2019/20 è infatti legata da vicino ai tempi di recupero dei propri big e su come e quanto la società potrà agire sul mercato se Durant e Thompson rifirmeranno a cifre importanti con i californiani: i Warriors, trattenendo entrambi, potrebbe trovarsi di fronte alla possibilità tutt’altro che remota di non rivederli in campo il prossimo anno e al contempo avere poco o nessuno spazio salariale per colmare alcuni deficit (vedi tiro dalla distanza) e alcuni addii (Cousins e Livingston).

Coach Nick Nurse è il terzo rookie in panchina a conquistare l’anello dopo Kerr e Lue (foto: zimbio.com)

A tal proposito, Curry e Draymond Green hanno detto che quello nelle ultime Finals è stato semplicemente uno scivolone e che, nonostante gli infortuni seri che ne hanno dimezzato la competitività, la loro dinastia non è terminata e che anzi, l’anno prossimo saranno di nuovo sui palcoscenici più nobili. Prendendo atto delle loro dichiarazioni tuttavia, al momento è più facile pensare che i movimenti creati quest’estate dai grandi nomi appetibili sul mercato (e dalle decisioni al draft) cambieranno gli equilibri all’interno della Western Conference e sarà davvero difficile vedere nuovamente al top la creatura di Joe Lacob.

Allo stesso modo anche i neocampioni non potranno stare molto tranquilli. Se vincere è difficile, confermarsi lo è ancora di più e farlo senza Leonard potrebbe far sì che quella a cui abbiamo appena assistito alle Finals rimanga una semplice comparsata da parte dei Raptors. Portando il titolo in Canada infatti, l’ex Spurs a dimostrato in un certo qual senso di essere sinonimo di vittoria dovunque lui decida di andare e in quest’ottica la sfida di tornare nelle zone natie (Los Angeles) e provare a trionfare anche lì potrebbe essere più che stimolante.

Kawhi Leonard esplode di gioia (foto: zimbio.com)

La certezza, lato Toronto, sono i soldi (tanti) che Masai Ujiri (sulle cui tracce si sarebbero mossi subito i derelitti Wizards) può offrire al proprio numero 2, un argomento che potrebbe essere più che sufficiente per aprire un vero e proprio ciclo vincente, quello a cui probabilmente hanno rinunciato gli Spurs scambiandolo e non trovando modo di sanare i dissidi con lui la scorsa annata.

Ma anche questo rientra nello sterile gioco dei “se” e “ma”. L’unica sicurezza, adesso, è che i Toronto Raptors sono campioni NBA, che i Golden State Warriors non sono riusciti a salutare Oakland e la Oracle Arena con l’ennesimo trionfo e che un’altra stagione è andata in archivio: per completare il quadro dei punti di domanda allora è consigliabile passare tra qualche settimana.

 

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