Nessun lieto fine

La storia delle corse non è fatta solo di risultati, sogni, obiettivi, motori, sfide. Al di là dei suoi protagonisti principali, ci sono le vicende “degli altri”. Di chi li affianca, di chi li appoggia, di chi vive succube del pericolo costante, di chi è nell’instabile equilibrio tra la paura e il sollievo.

Se c’è un giorno dell’anno in cui inevitabilmente pensiamo al romanticismo, ai sentimenti, alle farfalle nello stomaco… è il 14 febbraio. Ogni anno, ogni 14 febbraio, la nostra vista si colora di rose, rosso, un tripudio di calore che serve a celebrare l’amore. L’amore: quello che, nel bene o nel male, ci fa sentire vivi. Cosa c’entra questa ricorrenza con la Formula 1, direte. C’entra, perché anche la massima serie delle corse automobilistiche è stata – ed è – teatro di storie, più o meno profonde, e di legami, più o meno indissolubili. Alcuni di questi, però, non hanno avuto un lieto fine. E non parlo di incomprensioni o rotture, parlo di ingiustizie. Quelle ingiustizie legate al pericolo, al rischio di essere un pilota di Formula 1.

Nella Formula 1 di un tempo, quella in cui l’aver salva la vita era davvero un’incognita, i cavalieri con tuta e casco affrontavano il loro destino al fianco della loro compagna di vita. Siamo negli anni Settanta. In questa epoca d’oro dei motori, due donne più note di altre, condividono lo stesso destino, la stessa perdita, a pochi anni di distanza. Nina e Barbro. Se dico “Settanta” e 14 febbraio, nella mente dei tifosi e degli appassionati di quella Formula 1 non può non riaffiorare il ricordo di uno svedese veloce come il vento. Dall’inconfondibile casco blu con la visiera gialla. 

Lui si chiamava Ronnie Peterson. Un pilota che certamente avrebbe meritato molto di più di quanto non abbia raccolto nella serie dei “grandi”. Un pilota a cui, come altri, il lieto fine ha voltato le spalle in modo brutale. Nel suo caso, l’11 settembre 1978, all’indomani del Gran Premio d’Italia, in una stanza dell’ospedale Niguarda di Milano. 

Aveva 34 anni, una bimba di nome Nina e una moglie bellissima, Barbro, che quel fine settimana non lo aveva seguito a Monza. Barbro riceve una telefonata nel cuore della notte: uno sconosciuto le riferisce che per il marito “non c’è più nulla da fare…”. Tutto, all’improvviso, diventa buio. Svezia, primavera del 1969. Barbro Edwardsson e Ronnie Peterson sono in una discoteca di Orebro, paese natale del pilota. Basta un attimo, un incrocio di sguardi, e i due non si separeranno più, nemmeno dopo l’anno di distanza causato da Barbro per studiare oltreoceano. Decidono di cercare casa non lontano da Londra, nei pressi dell’aeroporto di Hearthrow. E mentre Ronnie sfrecciava su rettifili e cordoli, Barbro diventava cronometrista ufficiale del team per cui correva Ronnie, la LotusLa prematura scomparsa del marito è un duro colpo per Barbro, che diversi anni dopo diventa compagna di un collega e amico di Peterson, John Watson, pilota in pensione dal 1984. John, dopo aver appeso il casco al chiodo, decide di trasferirsi insieme a Barbro e alla piccola in una grande villa neoclassica sita nel cuore della campagna inglese, nel Berkshire, a ovest di Londra. La sua più grande speranza era che la giovane donna potesse ritrovare un po’ di pace nel lungo tunnel della depressione in cui era sprofondata dopo l’addio a Ronnie. Sfortunatamente, il sogno di Watson si infrange il 19 dicembre del 1987, quando, di ritorno da Londra in cui si era recato per comprare i regali di Natale, trova il corpo senza vita di Barbro nella vasca da bagno. L’autopsia confermerà l’ipotesi di un suicidio involontario causato da un fatale mix di alcol e tranquillanti. Oggi, Barbro riposa a Orebro, accanto al suo Ronnie.  

Sempre a Monza, otto anni prima della tragica edizione del ‘78, l’ingiustizia sceglie Jochen Rindt come suo bersaglio, privandogli la gioia di celebrare il titolo mondiale del campionato del 1970 con la moglie Nina e la piccola Natasha. Nina, classe 1943, è figlia del pilota finlandese Curt Richard Lincoln. Con la sua classe, con il suo fascino, con la sua eleganza, con i suoi eccentrici cappelli, diventa l’icona di stile del muretto box, la moglie fedele che con taccuino e cronometro segna la velocità del proprio amore, Jochen. Lei, modella affermata degli anni Sessanta, lui, giovane pilota talentuoso dal grande avvenire. Si sposano nel 1967 e appena un anno dopo nasce la loro unica figlia. Insieme, rappresentano una delle coppie più invidiate del mondo dei motori, una delle più famose della Formula 1.

Nel 1970, Jochen è il pilota di punta della Lotus. La monoposto di patron Chapman è così veloce e competitiva, da condurre Rindt alla vittoria in cinque occasioni sulle nove gare disputate… sino a Monza. Alla fine del mondiale mancano quattro Gran Premi e all’austriaco basterebbe un podio per diventare campione del mondo. Ma il suo tragitto verso la gloria, viene interrotto il 5 settembre, durante le prove. La Lotus di Jochen impatta violentemente contro il guard-rail in uscita dalla Parabolica. Il pilota, si spegne durante il trasporto in ambulanza. Nina è come sempre nella sua postazione al muretto. Aspetta il passaggio di Rindt per arrestare il cronometro. L’attesa diventa straziante, Jochen non arriva. Jackie Stewart, il migliore amico di Rindt, le si avvicina per comunicarle che “Jochen non sta bene, ha avuto un incidente”.  

Mentre un giovane Bernie Ecclestone percorre il circuito con in mano il casco e la scarpa del pilota, il cuore di Nina si dilania in un dolore straziante.  Al termine del campionato, nonostante la rimonta del ferrarista Ickx, Rindt sarà comunque campione. Postumo. Nina accetta il riconoscimento al posto del compianto marito partecipando alla cerimonia di premiazione. Da quel momento, la sua vita, spegne i riflettori. Nina e Barbro sono solo un esempio di cosa volesse dire, nell’era del pericolo tangibile e costante, amare un pilota di Formula 1. Sono solo un esempio tra gli esempi, una goccia nell’oceano di tutte quelle storie d’amore che, immeritatamente, non hanno visto alcun lieto fine.

A proposito di Beatrice Frangione

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