“Alta pensione”

Nico Rosberg, dopo pochi giorni dalla conquista del suo primo ed unico titolo iridato, annuncia di appendere il casco al chiodo. Il racconto di un ritiro (forse) poco inaspettato.

Che pensieri si manifestano nella testa di un pilota di Formula 1 quando realizza che vincere è possibile? Quanta è grande la motivazione, la determinazione? Ma soprattutto, quando e perché un pilota di Formula 1 decide di ritirarsi?

Partiamo da questo presupposto. 2014, mondiale di Lewis Hamilton. 2015, mondiale di Lewis Hamilton. 2016, mondiale non di Lewis Hamilton.

Quell’anno, il 27 novembre, il destino iridato abbraccia un pilota diverso. Un pilota che, dopo tanta fatica, dopo una ormai divenuta maggiorenne sconfitta da parte del suo principale avversario, riesce ad entrare nell’Olimpo dei più grandi.

Il cognome Rosberg, nella storia della Formula 1, aveva già lasciato il segno in un indimenticabile e tragico 1982, con l’assoluta vittoria del baffo biondo di Keke. Il figlio Nico scrive il suo nome trentaquattro stagioni più tardi, tagliando il traguardo avvolto dalla notte di Abu Dhabi, dai suoi fuochi d’artificio. Il Gran Premio lo vince l’antagonista in casa, ma il peso di uno zero in Malesia consente a Rosberg Junior di potersi accontentare di un secondo posto per festeggiare.

Il team radio che dedica alla moglie Vivian sfoca la vista ai più sensibili. In quelle parole, Nico si lascia andare ad un timbro liberatorio, felice, esausto. Era la fine di quello che per certi aspetti, per lui, era diventato un incubo. Sembrava impossibile, irraggiungibile, battere Lewis.

Che sarebbe stata una stagione ai limiti della competizione lo si era ben capito dallo show che i due pilotini argentati ci avevano regalato dopo una manciata di curve a Barcellona.

Nel paddock degli Emirati Arabi, a festa nei box conclusa, Nico pare invecchiato di dieci anni. Tante le sensazioni che prova, un pentolone di piacere e dolore al tempo stesso, nonostante sia circondato dalle persone più importanti della sua vita: la sua famiglia e i suoi genitori.

Infatti, papà Keke, che per molto tempo e per scelta si era allontanato dai microfoni e dalle biro dei giornalisti, dichiara quanto fosse evidente che la pressione, in Nico, stesse prevalendo sul divertimento. La sua presenza a Yas Marina era servita a ridare un po’ di serenità al figlio, nonostante mostrasse un’espressione angosciante anche dopo un paio d’ore dalla fine della corsa.

La mattina seguente la conquista del suo sogno, Nico decide che è il momento di dare voce ai suoi pensieri assillanti, quelli che già da un po’di tempo bussavano alla porta della sua volontà di continuare a guidare una Formula 1, anche dopo aver ottenuto la coppa del mondo. Ne parla con Vivian, con Keke, con il segretario, per poi partire alla volta della Malesia.

A Kuala Lumpur, infatti, sia lui che Toto Wolff sarebbero stati attesi da Petronas per celebrare il titolo, il terzo consecutivo per Mercedes. Al loro arrivo, il maestoso coro di una folla pronuncia il nome del neocampione, che durante la conferenza stampa parla più di stress, tensione, pressione. Quasi dalla sua bocca non viene pronunciata una parola sulla gioia di vincere. Accanto a lui, Wolff ascolta, perplesso. “Sia mai che forse voglia abbandonare la barca proprio ora?”, pensa. Del resto, lui, ancora, non sa nulla.

Il martedì sera, i due si imbarcano per Francoforte. Durante il viaggio, nessun argomento “scomodo”, nessuna confidenza. Arrivati a destinazione si salutano, dandosi appuntamento al giorno seguente per la premiazione Fia, a Vienna. Toto non fa appena in tempo a lasciare l’aeroporto, che gli squilla il telefono. È Nico che gli comunica la decisione di ritirarsi dalle scene, aggiungendo che ha preferito informarlo via cellulare perché gli mancava il coraggio di dirglielo guardandolo negli occhi. Il passo successivo di Wolff è mettere al corrente Niki Lauda.

Il lussuoso palazzo viennese di Hofburg è il palcoscenico dell’opera di Rosberg. Un’ora prima della conferenza, il tedesco parla sia con Jean Todt che con Matteo Bonciani della Fia e, cosa non prevista dal protocollo, il Presidente decide di sedere al fianco del ragazzo, in segno di vicinanza e comprensione.

Ed è qui che, vestito di un volto disteso, sereno, senza zavorre, abbinato ad un candido maglioncino grigio, Nico pronuncia le fatidiche parole:

“Era dall’età di sei anni che avevo come obiettivo quello di diventare campione del mondo. Oggi mi sento come uno che ha concluso una missione. Il sogno è divenuto realtà ed ora è tempo di guardare altrove. Ad Abu Dhabi mi ero detto che se avessi vinto, quella sarebbe stata la mia ultima corsa. E questo pensiero, mi ha aiutato a togliere tanta pressione da dosso sino a prima del via, perché, dopo, il Gran Premio è diventato il più duro e pazzo di tutta la mia vita. Ho riflettuto, e ora che ho attraversato il mio percorso decisionale, mi sento davvero bene. Hamilton l’ho avvisato personalmente, mi sembrava giusto farlo, considerando gli anni in cui abbiamo lottato duramente l’uno contro l’altro”.

Quando, il 2 dicembre del 2016, apprendo e vedo questo annuncio sparso su qualsiasi piattaforma mediatica, penso subito che sto assistendo ad un evento, di per sé, straordinario. Corro in edicola perché non voglio perdermi il nuovo numero di Autosprint. “Chissà come racconteranno questa storia”, chi chiedo. E sin dal titolo, un geniale “Alta pensione”, tutto pare chiaro. Due parole a cui mi rimando subito, ogni volta che ripenso a quella decisione.

La scelta di Nico scoppia come un temporale in piena estate, da molti viene criticata, da altri compresa. Io l’accolgo semplicemente commuovendomi. Perché ce l’aveva fatta. Aveva raggiunto la cima della montagna più difficile da scalare, e proprio sul punto più alto, decide che è giunto il momento di pensare ad altro. Tanto, anche se nel 2017 fosse sceso in pista con il numero 1 sul musetto della sua livrea sarebbe stato giudicato lo stesso.

In fondo, cosa c’è di male ad inseguire le volontà del cuore?

A proposito di Beatrice Frangione

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