Pablito: il simbolo di una generazione italiana

Un fisico qualunque.

Un viso qualunque.

Un nome talmente qualunque che negli esempi è secondo solo a Mario Rossi.

Un uomo che ha sbagliato, è caduto nel vizio. Fregato dal gioco più amato dagli italiani in quegli anni ma nella sua versione nera.

Paolo Rossi. Oppure Paolorossi. O ancora Rossi, Rossi, Rossi! Alla Nando Martellini.

Snello, sfisicato, non gli faresti mai fare il centravanti. A meno che tu non sia G.B. Fabbri allenatore del Lanerossi Vicenza.

Non vede la porta da un secolo, è rimasto fuori per squalifica, non lo porteresti mai ai mondiali. A meno che tu non sia Enzo Bearzot commissario tecnico della Nazionale italiana.

Sgraziato, indolente, fa incazzare vederlo giocare nelle prime partite di quel mondiale.

Sublime, divino, extraterreno, inarrestabile, fa innamorare e diventare matti nelle ultime tre partite di quel mondiale.

“Se ne è andata una parte della mia vita; se sono campione del mondo lo devo solo a lui” ho sentito dire questa mattina alla radio da un commosso Fulvio Collovati.

Ciò in cui sbaglia Collovati è che se ne è andata una parte di vita di tutti gli italiani.

Non ho ancora sentito mio padre questa mattina, ma ho paura che per la prima volta in vita sua si stia sentendo vecchio. Lui, ragazzo diciottenne in quell’estate Mundial, che a Paolo Rossi deve giorni di passione e nottate di gioia smisurata.

Paolo Rossi è stato una generazione del nostro paese.

Ciao, Pablito.

Davide Ravan

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