Dall’operaio in fabbrica al trionfo col Leicester, ora una nuova sfida a Cremona: il bomber inglese sceglie il coraggio invece del comodo epilogo.
C’è un momento, nella vita di un calciatore, in cui smetti di contare i gol e inizi a contare le scelte. Jamie Vardy a 38 anni non ha bisogno di convincere nessuno: lo ha già fatto quando il mondo non lo considerava, quando i turni in fabbrica finivano e cominciavano le partite nei campi spelacchiati, quando l’ascensore sociale sembrava guasto e lui sceglieva di salire lo stesso, a piedi. Oggi, con la pelle segnata dai chilometri e la memoria piena di trionfi d’Inghilterra, sceglie Cremona. Non un esotismo di fine carriera, non un tramonto dorato. Sceglie una città che parla piano e lavora forte, una neopromossa che non promette tappeti rossi, ma erba da calpestare, fatica da distribuire, responsabilità da prendersi.
Vardy non arriva per rifare il 2016. Quell’anno è scolpito nella memoria: undici gare di fila a segno, ventiquattro reti, la Premier impossibile diventata reale. Claudio Ranieri, la difesa e il contropiede perfetto, il mondo intero che impara i nomi di uomini normali che fecero cose straordinarie. Ma la figura che oggi ci interessa non è la statua dell’eroe; è l’uomo che scende dall’aereo senza colpi di teatro, stringe mani ai tifosi cremonesi accorsi a Linate per riceverlo e sussurra “sono qui per giocare”. L’uomo che ha detto no quando conveniva dire sì (ricordate in passato l’Arsenal e di recente Rangers e Brentford) e che oggi dice sì a ciò che potrebbe spaventare: misurarsi con la Serie A quando i riflessi non sono più quelli di un tempo, quando ogni difensore ti studia la corsa e ogni dubbio pesa il doppio.
Si riparte da una cosa semplice e potente: la responsabilità. La Cremonese non gli chiede di ringiovanire, gli chiede di “portare”. Portare tempi di smarcamento, cattiveria buona, fame; portare l’esempio di un professionista che non ha mai smesso di allenarsi come se qualcuno volesse togliergli il posto; portare la chimica invisibile che cambia lo spogliatoio. A Cremona, dove Stradivari costruiva violini con la pazienza del dettaglio, Vardy porta la stessa ossessione: il primo controllo orientato, il taglio sul lato cieco, il colpo secco sul secondo palo. È un’arte anche questa, e una città che vive di artigianato d’eccellenza capirà al volo il valore di un gesto fatto bene, cento volte, quando conta.
C’è chi dirà: 38 anni, davvero? Il calcio di oggi corre, pressa, spreme. Ma l’età, per chi ha imparato a correre meglio, può diventare mestiere. Vardy non sarà più l’atleta elastico che buca la profondità; sarà l’attaccante che sceglie quando farlo. Che parte un attimo dopo per arrivare un attimo prima. Che legge la postura del centrale, ascolta il rumore del pallone, intuisce l’errore possibile. Aiuta a tenere la squadra alta anche senza toccarla, la palla; basta una minaccia credibile alle spalle perché la linea avversaria indietreggi di due metri: sono metri di respiro per i compagni, sono secondi in più per rifinire. Vardy è un’idea che occupa campo prima ancora di toccarlo.
E poi c’è la storia. Non quella impolverata dei titoli vinti, ma il romanzo vivo del ragazzo di Hillsborough che ha conosciuto il rifiuto della sua squadra del cuore, lo Sheffield Wednesday, la caduta, l’etichetta del “non abbastanza”. Ha visto il calcio dei pub e quello di Wembley, ha segnato con gli scarponi sporchi di fango nei campi più infangati d’Inghilterra e con le telecamere addosso. Ha imparato che il talento non basta, che l’identità si costruisce, che non c’è statistica che misuri il coraggio di ricominciare da capo. Per questo la sua scelta parla a tutti: ai giovani che entrano nello spogliatoio con gli occhi grandi, ai tifosi che vedono nella maglia una promessa, a una città che chiede rispetto prima dei riflettori. Un campione che accetta una sfida così non viene a prendere: viene a restituire.
C’è una poesia sottile che lega l’operaio delle notti inglesi al marmo delle chiese di Cremona. Vardy è il simbolo di un calcio che sa ancora sorprendere: undici partite di fila a segno nel 2015-16, record che frantumò quello di Van Nistelrooy; 24 gol in quella stagione che consegnò al Leicester la Premier più incredibile del secolo; 200 reti con le Foxes tra tutte le competizioni, capocannoniere a 33 anni con 23 gol, FA Cup e Community Shield in bacheca. Numeri che non invecchiano, restano lì, scolpiti. E non è un caso se l’ultima annata, dopo la retrocessione e il contraccolpo emotivo, lo ha visto ancora incisivo: doppia cifra tra Premier e coppe, leadership piena, fino all’addio con la promessa di una nuova sfida.
In campo lo immagini già, con quella corsa storta e feroce, le braccia aperte per spostare l’aria, lo sguardo al limite dell’offside come un funambolo sul filo. Il calcio di Davide Nicola – pratico, verticale, morale prima che tattico – sembra costruito per uno così: recupero palla, due passaggi, un corridoio. Non gli servirà toccarne quaranta per essere decisivo: gliene basteranno quattro giuste. E quando non segnerà, starà segnando lo stesso, perché un pallone deviato, uno spazio aperto o un difensore trascinato fuori zona sono goal in altra forma. Le partite si vincono anche con ciò che non si vede dal tabellino.
Ma la ragione profonda per cui questa storia emoziona non è nelle lavagne. È nel patto. Un club che torna in A e sceglie un simbolo delle seconde possibilità. Un calciatore che ha avuto tutto e decide che “tutto” non è abbastanza se non implica ancora rischio, ancora responsabilità, ancora fame. A quest’età, chi arriva in Italia spesso cerca un epilogo comodo; Vardy, invece, cerca un’ultima verità. È un atto di fede in se stesso e in un’idea di calcio che non conosce anagrafe: il calcio dell’intenzione, dell’istinto addestrato, del lavoro che nobilita il talento.
Esaltarlo come uomo non significa ignorare i limiti. Significa riconoscere che li guarda in faccia. Sa che la Serie A scarnifica gli attaccanti distratti. Sa che dovrà scegliere le gare, che il corpo chiederà gestione, che il cronometro diventerà alleato. Sa che le difese italiane non ti lasciano pace. Per questo la scelta è grande: perché include tutto questo. È grande perché non promette scorciatoie; c’è una salita; perché non è un “tour”, ma è un duro lavoro.
Cremona farà la sua parte. La città che ha imparato a vincere senza perdere la misura saprà proteggere, pretendere, aspettare. Gli chiederà cose concrete: trascinare, semplificare, alzare il livello dei dettagli. Gli chiederà di trasformare le partite sporche in partite utili, gli 0-0 in 1-0, le gare storte in punti pesanti. Gli chiederà di insegnare. È il verbo più sottovalutato quando si parla di campioni. Insegnare cosa? Che un movimento fatto per gli altri vale quanto un gol. Che un “bravo” detto al ragazzo dell’ultima delle riserve può cambiare una settimana. Che la disciplina quotidiana – sonno, cibo, allenamento – non è negoziabile. Che il calcio, a qualsiasi livello, resta un mestiere di squadra e di coscienza.
L’impatto nello spogliatoio sarà forse persino più potente di quello in campo. Vardy è uno che si è “fatto da solo”: scartato da ragazzo, fabbrica di tutori ortopedici, partite nel torneo dei pub, poi l’ascesa verticale fra Halifax e Fleetwood fino al Leicester da un milione di sterline. Insegnamenti semplici e duri: non mollare un centimetro, difendere i compagni, trasformare il rifiuto in carburante. Questo tipo di biografia contagia, soprattutto in un gruppo che affronta il ritorno in A: è la differenza tra crederci e sperarci. E per una piazza come Cremona – sobria, competente, con una storia fatta di fatica e qualità – l’identificazione è naturale.
Cremona è il luogo giusto per un’ultima cavalcata. Una città che non urla, ma ricorda. Ricorda i suoi artigiani, i suoi strumenti, la cura del dettaglio. E il dettaglio è tutto. Se c’è un modo degno per chiudere la più bella storia di riscatto del calcio moderno, è questo: un uomo che non ha smesso di credere in se stesso che sposa una squadra che non ha smesso di credere nel proprio sogno.
Perché se un uomo di 38 anni, dopo avere attraversato l’intero atlante del calcio, sceglie ancora la frontiera invece della comodità, allora qualcosa di importante succede a tutti noi: ricordiamo che lo sport è verità soltanto quando qualcuno rischia di perderla. Non un saluto, non un’ode, ma una testimonianza. Jamie Vardy non viene a chiudere un cerchio: viene a tracciarne uno nuovo, con una matita forse meno affilata, ma con la mano più sicura. Se lo farà segnando dieci gol o cinque, se accenderà lo “Zini” in un pomeriggio di pioggia o in un lunedì sera gelido e nebbioso, lo decideranno il pallone e il tempo.
Ma la scelta è già storia adesso, nel minuto esatto in cui ha detto: “Andiamo”. E in quel “andiamo” c’è tutto: l’uomo che non smette, la città che ci crede, una Serie A che ritrova il gusto dell’impresa sobria. Il resto è calcio. E il calcio, quando incontra uomini così, diventa bello da vivere.
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