Il primo titolo mondiale di Norris non è solo una vittoria: è la consacrazione di un pilota maturato nella pressione, capace di battere Verstappen e riscrivere il futuro della McLaren.
Ci sono titoli mondiali che arrivano con la prepotenza del destino, altri che maturano come frutti tardivi, rigati da stagioni imperfette. Quello di Lando Norris appartiene alla seconda specie: un titolo conquistato nell’ora più tesa, quando il margine si misura in respiri più che in punti, e il cronometro sembra un avversario in più. Abu Dhabi lo ha consacrato con un terzo posto che vale un mondo, ma ciò che resta non è la posizione: è la dimensione del pilota che, alla settima stagione, si prende finalmente il posto che la sua velocità aveva solo suggerito.
Non c’è stato trionfo dominante, non c’è stata fuga solitaria; c’è stata invece la prova più difficile per chi non ha ancora assaggiato il sapore della vittoria totale: resistere. Resistere alle ombre di Max Verstappen, che ha chiuso l’anno con una gara da manuale, da quell’assoluto fuoriclasse che solo lui sa essere nelle occasioni più importanti. Resistere alle interferenze, ai giochi di scuderia altrui, agli imprevisti strategici che avevano già trasformato Las Vegas e il Qatar in due scogli minacciosi. Resistere a una tensione che la McLaren non viveva dal 2008 con Lewis Hamilton, l’ultimo anno di un mondiale piloti vinto da Woking.
In tutto questo, Norris non ha vinto la gara, ma ha saputo tenere saldo il volante mentre intorno a lui il mondiale vibra, si deforma, tenta di scivolargli dalle mani. È stato questo il suo vero passo in avanti. Non la velocità – quella era nota –, ma la capacità di restare lucido in un contesto in cui perfino una frenata lunga o un sorpasso fuori traiettoria potevano trasformarsi in una condanna.
Il duello con Tsunoda, mandato in pista per complicare la sua giornata è stato il punto in cui il titolo ha rischiato di prendere la direzione sbagliata. In quell’incrocio di traiettorie non c’era solo il terzo posto: c’era l’idea stessa di legittimità. Norris ha saputo farsi largo senza cedere all’ansia del momento, senza rinnegare la propria natura di pilota pulito. Da lì in avanti, ogni giro è stato un esercizio di autocontrollo più che di velocità pura.
Eppure, per capire questo titolo, bisogna guardare oltre Abu Dhabi. McLaren ha messo in pista la vettura migliore dell’anno, e anche questo è un punto interessante: Norris è campione del mondo con una monoposto che spesso ha mostrato di essere superiore a tutte, ma ha dovuto comunque difendersi da un avversario che non concede sconti. Vincere contro Verstappen, due punti appena sopra il limite del fotofinish, è un attributo che aggiunge peso specifico alla corona.
C’è un altro elemento, più sottile ma fondamentale: la presenza di Oscar Piastri. In una stagione a tre punte, con tre piloti capaci di vincere e un equilibrio raro negli ultimi anni, Norris non ha soltanto gestito un rivale esterno, ma anche un compagno interno. Abu Dhabi lo ha mostrato con chiarezza: Piastri è stato parte della strategia, della difesa, del quadro complessivo di un titolo che, pur essendo individuale, ha richiesto una collaborazione a due. È anche questo che mancava alla McLaren da decenni: una coppia che regge il peso dell’intero sviluppo tecnico e sportivo.
Alla fine, ciò che rende memorabile questo successo è proprio la sua fragilità. Non la perfezione, ma l’insieme delle imperfezioni superate. La squalifica di Las Vegas, le strategie mancate, i weekend storti, le partenze esitanti. Tutto ciò avrebbe potuto sgretolare una squadra diversa, un pilota meno disposto a crescere dentro le crepe. Invece Norris ha fatto ciò che fanno i campioni veri: ha trasformato ogni inciampo in un mattone per la scalata finale.
Un titolo così non racconta solo una stagione, ma un percorso. Racconta un ragazzo entrato in Formula 1 spesso giudicato per la simpatia più che per la sostanza, finalmente diventato adulto davanti al mondo. Racconta una scuderia che solo tre stagioni fa era l’ultima e ha ritrovato la memoria dei grandi anni 80 e 90, non attraverso un colpo di fortuna, ma con un lavoro profondo, continuo, quasi ostinato.
In un 2025 vibrante, dove il mondiale è tornato ad avere tre interpreti veri, Norris ha costruito una vittoria che sembra più un punto di partenza che di arrivo. Perché un titolo così, ottenuto con il fiato di Verstappen sul casco, con la presenza ingombrante di Piastri nello specchietto, con una McLaren obbligata a vincere dopo anni di rincorsa, ha qualcosa di epico ma anche di incompiuto, come se questo fosse solo il primo capitolo di una storia più grande.
E forse la chiave è proprio qui: nella sensazione che il mondo della Formula 1, oggi, non abbia soltanto un nuovo campione, ma un protagonista destinato a contribuire alla narrazione dei prossimi anni. Un pilota che diventa l’undicesimo britannico mondiale ha pianto non per debolezza, ma per lucidità; perché ha capito, prima di chiunque altro, che questo titolo non è un traguardo, ma una porta che si apre verso una carriera tutta da costruire.
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