Galatasaray
Fonte: profilo X Galatasaray

Come fa la Süper Lig a spendere così tanto?

Nonostante stadi statali, pochi introiti dai diritti tv e una crisi economica di fondo, i grandi club turchi investono cifre esorbitanti nel calciomercato. Ecco da dove arrivano davvero i soldi che alimentano il sogno di Galatasaray, Fenerbahçe e non solo: tra sponsor strategici, aiuti statali e ambizioni presidenziali.

Victor Osimhen per 75 milioni. Leroy Sané con 9 milioni netti a stagione. José Mourinho allenatore a 10,5 milioni. E poi Tammy Abraham, Eric Bailly, Stefan Savić, Orkun Kökçü. Se queste cifre vi fanno pensare alla Premier League o alla Saudi Pro League vi sbagliate: siamo in Turchia, nel cuore di una Süper Lig che, almeno sulla carta, non può permettersi nulla di tutto questo. E allora, com’è possibile che il calcio turco stia diventando uno dei più attivi e spendaccioni in Europa? La risposta, come spesso accade, è un intricato mix di politica, finanza creativa e pressioni sociali.

UNA LEGA CHE NON PUÒ PERMETTERSI TANTO… MA LO FA

Sulla carta, la Süper Lig turca non è affatto una potenza economica. I numeri lo dicono chiaramente: è appena la decima lega europea per fatturato, dietro non solo ai colossi come Premier League, Bundesliga, Serie A, Liga e Ligue 1, ma anche a campionati meno prestigiosi come Eredivisie o Primeira Liga. I diritti televisivi interni, da sempre linfa vitale per i club, sono a livelli sorprendentemente bassi: l’ultimo accordo triennale siglato con Digiturk – società controllata dal gruppo qatariota BeIN Sports – vale 260 milioni di euro complessivi, cioè meno di 90 milioni l’anno. Per fare un confronto: in Serie A, anche una squadra medio-piccola come l’Udinese incassa annualmente di più.

A questo si aggiunge l’assenza di accesso diretto alla Champions League, una manna che alimenta i bilanci di molte altre squadre europee. La Turchia è attualmente fuori dalla Top 10 del ranking UEFA, e per accedere alla fase a gironi della massima competizione continentale serve superare due o tre turni preliminari, una sfida tutt’altro che semplice e tutt’altro che redditizia.

Anche le strutture, seppur all’avanguardia, non portano introiti diretti ai club. Tutti i principali stadi del paese – compresi l’Ali Sami Yen di Istanbul e lo stadio del Fenerbahçe – sono di proprietà statale, concessi alle squadre senza possibilità di sfruttamento economico completo. Gli incassi da matchday sono dunque limitati, e privi di quelle entrate extra (tour, eventi, naming rights gestiti direttamente) che i grandi club europei sfruttano a pieno.

Inoltre, i club turchi non eccellono nella valorizzazione e rivendita dei propri talenti. Il modello “vendi e reinvesti” che ha fatto la fortuna di club come Porto, Benfica o Ajax non è mai decollato realmente sul Bosforo. I pochi giocatori turchi esportati all’estero spesso partono a cifre contenute o a parametro zero. In compenso, però, gli acquisti in entrata sono altisonanti, con stipendi e cartellini pagati come se i club disponessero di una stabilità finanziaria che semplicemente non esiste.

Infatti, secondo l’ultimo report UEFA, il player cost ratio, ovvero la percentuale di introiti dedicata agli stipendi dei giocatori, ha raggiunto l’88% in Turchia. Un dato estremamente preoccupante, considerando che il limite consigliato dalla UEFA è del 70%. Ciò significa che i club turchi spendono quasi tutto ciò che incassano (e anche oltre) per mantenere calciatori e staff tecnici, lasciando poco o nulla per investimenti strutturali, settore giovanile o risanamento dei bilanci.

Eppure, nonostante tutto, il Galatasaray riesce a offrire 9 milioni netti a Sané, il Fenerbahçe porta Mourinho a Istanbul, il Beşiktaş punta su attaccanti di Serie A. Sembra un paradosso, ma è la realtà di una lega che vive oltre le sue possibilità, alimentata da promesse politiche, sponsor milionari e operazioni finanziarie sempre più borderline. Un castello che, se non consolidato, rischia di crollare sotto il peso delle sue stesse ambizioni.

Turchia

LA STRUTTURA: SOCIETÀ SENZA PADRONI, MA CON ELEZIONI

A differenza della maggior parte delle squadre occidentali, soprattutto inglesi, spagnole e italiane, i club turchi non sono aziende private possedute da imprenditori o fondi d’investimento, ma vere e proprie associazioni sportive, spesso polisportive, gestite dai soci attraverso un sistema elettivo. Questo significa che non esiste un “patron” unico con pieni poteri decisionali e con la responsabilità diretta dei conti. Le decisioni vengono invece prese da un presidente eletto e da un consiglio direttivo, rinnovati periodicamente tramite votazioni interne.

Le società turche più prestigiose – Galatasaray, Fenerbahçe, Beşiktaş, Trabzonspor – sono quindi realtà storiche, con migliaia di soci attivi che rappresentano l’anima identitaria e il cuore popolare del club. Un sistema affascinante, democratico sulla carta, ma che porta con sé una lunga serie di contraddizioni e conseguenze economiche gravi.

Il punto chiave è questo: per vincere le elezioni, i candidati alla presidenza devono convincere la base associativa. E cosa può convincere più di una campagna elettorale fondata su promesse roboanti? Ecco quindi l’ossessione per i “grandi colpi”, gli allenatori famosi, i campioni affermati: una rincorsa al consenso che passa dal mercato, più che dalla gestione sostenibile del club. Chi promette successi immediati, chi annuncia trattative con top player, ha molte più possibilità di vincere il voto, anche a costo di infilare il club in una spirale debitoria senza controllo.

Il meccanismo ha già mostrato i suoi effetti nefasti: molti presidenti, una volta eletti, hanno acceso mutui, anticipato ricavi, impegnato risorse future, pur di costruire squadre competitive nel breve periodo. Poi, dopo uno o due mandati, si sono fatti da parte, lasciando in eredità bilanci in rosso, stipendi arretrati e trattative opache.

Un altro elemento poco noto è che molti club turchi hanno rami attivi anche in altri sport, come pallavolo, basket, atletica. Il calcio però è sempre la sezione trainante e quella più seguita mediaticamente: dunque è anche quella che attira le maggiori risorse e le pressioni più alte. Gli sponsor, i politici locali, persino le banche trattano direttamente con il club di calcio, facendo leva su quella che, di fatto, è una struttura fragile ma permeabile agli interessi esterni.

In questo contesto, il presidente di un club non è solo un dirigente sportivo: è un personaggio pubblico, quasi un politico, costretto a navigare tra consensi, promesse, campagne mediatiche e rivalità. La rivalità con le altre “grandi” di Istanbul – Fenerbahçe, Galatasaray e Beşiktaş – non è solo sportiva, ma anche elettorale, perché ogni stagione senza trofei può costare la poltrona.

In sintesi, il calcio turco non è solo calcio: è un sistema elettorale parallelo, dove i voti si conquistano con i gol, gli allenatori si scelgono come se fossero ministri e i bilanci spesso sono la prima vittima di una corsa sfrenata al potere sportivo.

L’INTERVENTO DELLO STATO E IL “CALCIO DI ERDOĞAN”

Per capire davvero come sia possibile che il calcio turco continui a spendere a ritmi insostenibili, nonostante crisi economiche cicliche, inflazione galoppante e bassi introiti strutturali, bisogna guardare oltre il campo. Serve uno sguardo attento ai palazzi della politica di Ankara, dove da anni il governo guidato da Recep Tayyip Erdoğan ha scelto di legarsi direttamente al destino delle squadre di calcio più popolari del paese.

Il rapporto tra Erdoğan e il calcio è profondo e controverso. Ex calciatore dilettante giovanile del Kasımpaşa – il club del suo quartiere natale a Istanbul – il presidente turco ha sempre compreso l’enorme potere sociale e politico del pallone, ma allo stesso tempo ha faticato a conquistare il consenso degli ultras e delle frange più attive del tifo organizzato. Emblematica in questo senso è la storica tregua tra le tifoserie di Galatasaray, Fenerbahçe e Beşiktaş durante le proteste di Gezi Park nel 2013, quando le curve si schierarono apertamente contro il governo, sostenendo il movimento ambientalista e le rivendicazioni democratiche della piazza.

Da allora, il calcio è diventato anche un campo di battaglia politico, con Erdoğan deciso a riportare sotto controllo la narrazione sportiva e, soprattutto, a usare il successo calcistico come leva propagandistica. Così, nel 2019, quando i quattro grandi club del paese (Galatasaray, Fenerbahçe, Beşiktaş e Trabzonspor) erano tecnicamente sull’orlo della bancarotta, è intervenuto direttamente lo Stato, orchestrando un maxi piano di salvataggio.

La regia fu affidata alla banca statale Ziraat, che coinvolse i principali istituti di credito turchi in una complessa operazione di ristrutturazione del debito: ai club furono concessi piani di rientro a lungo termine, tassi agevolati e condizioni che nessuna azienda privata in difficoltà avrebbe mai potuto ottenere. In pratica, vennero socializzati i debiti del pallone, mentre milioni di cittadini faticavano a pagare mutui, bollette e beni di prima necessità. La scelta fu duramente criticata dall’opposizione parlamentare, che accusò Erdoğan di spendere denaro pubblico per salvare squadre private in nome del consenso popolare.

E in effetti, l’operazione ebbe una chiara finalità politica: riconquistare il favore dei tifosi, soprattutto nei grandi centri urbani, dove l’AKP – il partito di Erdoğan – cominciava a perdere terreno. In quel contesto, aiutare Galatasaray o Fenerbahçe non era solo una questione economica, ma un’azione mirata a stabilizzare il consenso in città-chiave come Istanbul, Smirne e Ankara.

Il “calcio di Erdoğan” ha anche un’altra dimensione strategica: gli investimenti statali nelle infrastrutture sportive. Negli ultimi 15 anni, decine di nuovi stadi ultramoderni sono stati costruiti o rinnovati con fondi pubblici, in città grandi e piccole. Tutti impianti di proprietà dello Stato, ma dati in gestione ai club locali, senza oneri né canoni rilevanti. Una politica che ha trasformato lo stadio in uno strumento di consenso territoriale, ma che non ha permesso ai club di trarne profitto diretto, come avviene in Europa occidentale.

Un altro esempio emblematico riguarda i rapporti internazionali: molte sponsorizzazioni arrivate negli ultimi anni, soprattutto quelle di società legate all’energia (come SOCAR, compagnia statale dell’Azerbaijan), sono state agevolate grazie a relazioni diplomatiche strette tra Ankara e Baku. In altre parole, anche le sponsorizzazioni calcistiche vengono utilizzate come prolungamento della politica estera.

E infine, il caso simbolo della politicizzazione del calcio in Turchia resta quello di Hakan Şükür, eroe nazionale per i gol con il Galatasaray e la Nazionale, oggi in esilio negli Stati Uniti, costretto a fuggire dal paese per la sua vicinanza all’opposizione e al movimento di Fethullah Gülen. Le autorità turche hanno cancellato il suo nome dagli archivi ufficiali del calcio, un gesto che racconta bene quanto, nel calcio turco contemporaneo, la linea tra sport, potere e repressione sia sempre più sottile.

Fenerbahce
Fonte: profilo X Fenerbahce

SPONSOR E OPERAZIONI IMMOBILIARI MILIONARIE

Dietro l’apparente magia del calciomercato turco si nasconde una realtà dove le sponsorizzazioni strategiche e l’edilizia giocano un ruolo centrale. Se i bilanci non reggono e i ricavi tradizionali (diritti tv, stadio, plusvalenze) sono limitati, i grandi club della Süper Lig hanno imparato a fare leva su strumenti alternativi per ottenere liquidità immediata. Due in particolare: sponsor multimilionari e operazioni immobiliari ad alto rischio.

Il Galatasaray è forse l’emblema di questo modello. Negli ultimi anni ha firmato accordi di sponsorizzazione tra i più ricchi d’Europa, nonostante giochi in un campionato periferico rispetto ai big five. Il contratto più pesante è quello con Sixt, la multinazionale del noleggio auto, che ha messo sul tavolo 100 milioni di euro fino al 2028. Poi c’è SOCAR, colosso energetico dell’Azerbaijan – e partner politico-strategico della Turchia – che paga 15 milioni di euro per comparire sulle maglie nelle coppe europee.

Ma la vera perla è Rams Global, azienda turca del settore costruzioni, che ha ottenuto i naming rights dello stadio (oggi si chiama “Rams Park”) e ha contribuito direttamente all’acquisto di Mauro Icardi, versando parte dei 10 milioni di euro del cartellino e coprendo parte del suo stipendio da 6 milioni a stagione. I dettagli dell’operazione non sono mai stati resi pubblici, ma il coinvolgimento diretto dello sponsor ha segnato un nuovo confine tra finanza, sport e branding.

Per generare ulteriori risorse, il Galatasaray ha anche avviato un’imponente operazione immobiliare. Il club ha ottenuto dallo Stato un terreno in concessione per 49 anni a Kemerburgaz, a nord di Istanbul, dove costruirà il nuovo centro sportivo. In cambio, cederà il vecchio centro di Florya, situato in una zona residenziale e strategica della capitale economica turca, a un consorzio di società edilizie.

Secondo quanto riportato dalla Bild e da media turchi come Yeni Şafak, da questa sola operazione immobiliare il club si aspetta introiti tra i 500 e i 600 milioni di euro, una cifra monstre, superiore al valore di mercato dell’intera rosa. Il piano è quello di trasformare un asset sportivo in una miniera d’oro edilizia, sfruttando la posizione centrale del terreno e l’esplosione dei prezzi nel mercato immobiliare di Istanbul.

Se il Galatasaray cavalca la spinta edilizia e gli sponsor energetici, il Fenerbahçe punta sulla potenza di fuoco del suo presidente, Ali Koç, membro di una delle famiglie industriali più ricche del paese (il gruppo Koç Holding è attivo in energia, automotive, finanza, elettrodomestici).

È stato proprio lui a negoziare un accordo imminente con Chobani, azienda turco-americana del settore alimentare, per una sponsorizzazione da 100 milioni in cinque anni: uno dei contratti più redditizi mai siglati da un club turco. L’obiettivo è riportare il Fenerbahçe in vetta dopo 10 anni senza titoli, ma anche rafforzare il club su scala globale, creando partnership commerciali che vadano oltre il calcio.

Queste sponsorizzazioni, per quanto regolari sulla carta, funzionano spesso come una sorta di “scudo finanziario”, che consente ai club di gonfiare artificialmente i bilanci. Di fatto, alcune aziende sponsor agiscono come soggetti finanziatori esterni, intervenendo direttamente nelle trattative di mercato, coprendo stipendi, bonus o persino commissioni. Una dinamica che ricorda da vicino i meccanismi della Saudi Pro League, con la differenza che in Turchia non c’è una vera regia statale centralizzata, ma una rete più fluida e opaca tra politica, affari e sport.

QUANTO PUO’ DURARE IL SOGNO TURCO?

Cifre alla mano, il sistema turco è basato su sabbie mobili. Il volume delle spese, in proporzione ai ricavi reali, è fuori controllo. Le società sopravvivono grazie a un equilibrio instabile tra politica, sponsor esteri e finanza creativa. Ma quanto potrà reggere? L’impressione è che la bomba debitoria possa esplodere da un momento all’altro. Nel frattempo, però, il calcio turco continua a brillare sul mercato: affascinante, seducente, ma decisamente ad alto rischio.

Disclaimer: questo articolo è stato scritto in modo originale e autonomo, ma trae ispirazione e approfondimento da quanto riportato da Valerio Moggia nell’articolo pubblicato su ilPost dal titolo “Com’è che le squadre di calcio turche spendono tutti questi soldi”. Un contributo utile per comprendere le dinamiche economiche e politiche dietro il calcio turco contemporaneo.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.