Brighton 1983: il sogno infranto dei gabbiani

Tre anni in massima serie, e al quarto anno arriva la finale di FA Cup. I Seagulls potevano spiccare il volo, e invece restano a terra.

“Too much crowded”, mi disse Ian quando gli chiesi se preferiva Brighton in estate. Lui, che gestisce un bed and breakfast a Stratford Upon Avon, dove avevo soggiornato per un paio di notti durante una visita della città di Shakespeare, mi rispose più o meno come Lady Diana definiva il suo matrimonio: un po’ troppo affollato.
Allora avevo fatto bene ad andarci in primavera, a Brighton, Sussex, laddove corrono le bianche scogliere. Gli raccontavo della mia visita e lui apprezzava. Passeggiai di buon mattino lungo il grande viale che sovrasta la spiaggia colma di sassi grossi e levigati, semi deserta, eccetto qualcuno che portava a spasso i cani. I chioschi erano aperti, mentre la Brighton Pier sarebbe stata accessibile verso mezzogiorno.
Vento, certo, siamo sulla manica. Con le onde che sbattevano nei pontili e nei moli con tutto il loro impeto. Ma anche un cielo terso e un sole sempre più alto sull’acqua. A circa un’ora e mezza, ma solo perché il bus fa in pratica una fermata al minuto, il Seven Sister’s Country Park, ettari di verde che portano al mare, e quelle scogliere bianche, non lontano da Eastburne, che dominano come immensi muri bianchi alle spalle del visitatore, quelle, per intenderci, da dove salta giù il motorino nel finale di Quadrophenia.
In questa striscia di Inghilterra che è la porta sul mare, c’è anche la squadra in Premier League. Il Brighton & Hove ci è tornata nel 2017 dopo 24 anni di assenza, ossia da quel 1983 denso di significati per i “Seagulls”, i gabbiani, proprio quelli che volteggiano sopra la città e talvolta si poggiano sui corrimani della Pier. Riavvolgiamo il nastro dunque, senza però prima partire da un flash-back.

La vita di Freddie Goodwin, inizia anagraficamente il 28 giugno 1933 a Heywood, sconosciuto paese di 29 mila abitanti nella Greater Manchester. Ma forse, spiritualmente, prende forma il 6 febbraio del 1958. Lui, che milita nel Manchester United di Busby, non viene convocato per la partita di Coppa dei Campioni a Belgrado con la Stella Rossa. Mentre 8 calciatori della squadra muoiono nell’incidente sulla pista innevata di Monaco, lui e i sopravvissuti vivranno coi sensi di colpa.

Abituato alla cadetteria, quando lascia i Red Devils, dopo due campionati e una Charity Shield, va a Leeds, un decennio prima di quello maledetto da David Peace. Gioca quattro stagioni in seconda divisione e all’ultimo anno riesce a ritagliarsi un posto da protagonista nel ritorno in First. Di fatto è il canto del cigno della sua carriera da giocatore. Allena lo Scounthorpe, e poi arriva proprio a Brighton, dodicesimo e quinto in terza divisione, preludio della promozione che il Brighton otterrà nel 1972 con l’irlandese Pat Saward in panca. Nel 1979 il secondo posto in Second Division, un punto dietro al Palace, permise agli uomini di Mullery, ex giocatore cardine del Tottenham che vinse la Uefa nella finalissima tutta inglese col Wolverhampton proprio nel ’72, di salire per la prima, storica volta, nel calcio dei grandi.

Sempre tribolati gli anni in massima serie: dopo aver ottenuto tre salvezze, di cui una, nel 1980, per due soli punti, nel 1982-83 ultimo posto con 40 punti e retrocessione certa.

Ma verso la fine di quel maggio del 1983, il nostro Freddie Goodwin si sarà certamente seduto in poltrona, perché di allenare aveva finito da un pezzo, compresa una insignificante esperienza negli Usa. C’era la finale della sua vita, tra la squadra in cui aveva giocato e nella quale, per una mancata convocazione, era scampato alla tragedia, e quella che aveva allenato per un biennio.

Il Brighton, una Charity Shield nel 1910 vinta 1-0 nella finale con l’Aston Villa e poi più nulla, si giocava un trofeo a Wembley contro il Manchester United. La FA Cup aveva appena superato le 100 edizioni, e dopo un equilibrato terzo turno col Newcastle (1-1 e 1-0 nel replay), i gabbiani allenati da Jimmy Melia, icona per un decennio del Liverpool, nel periodo di rinascita e consacrazione con Bill Shankly in panchina, superarono senza patemi il Manchester City 4-0.

Il 20 febbraio 1983, fu proprio ad Anfield che i biancoblu fecero bottino pieno, vincendo 2-1. Superato di misura il Norwich e battuto lo Sheffield United ad Highbury in semifinale (2-1), per il Brighton si aprirono le porte di Wembley, con la possibilità di conquistare il secondo trofeo della sua storia dopo 73 anni e, cosa ancor più sorprendente, con una retrocessione appena piovuta sul groppone.

Sarà una delle finali più memorabili nella storia della competizione: il Brighton va avanti con un chirurgico colpo di testa di Smith. Stapleton e un gran gol di Wilkins, futuro milanista, ribaltano la situazione. Quando pare non esserci più speranza, in mischia dentro l’area spunta la botta sicura di Stevens che pareggia. Nei supplementari, accade l’incredibile: su una ripartenza fulminante del Brighton, Smith, solo davanti a Bailey.

Può fare ciò che vuole, e forse un pallonetto, col portiere dello United già quasi a terra, sarebbe l’ideale. Smith chiude gli occhi e calcia, e pare impossibile possa sbagliare: la palla invece sparisce nel corpo del numero uno avversario. Una occasione gettata alle ortiche che l’attaccante di Killwinning, Scozia, ex bomber di Kilmarock e Rangers, avrà modo di rimpiangere amaramente.

Cinque giorni dopo, si rifà tutto da capo e stavolta non c’è storia: 4-0 per il Manchester, a cui basta un’ora per andare a segno con Robson (doppietta), Muhren e Whiteside su rigore. La favola dei gabbiani finisce qui: sui piedi di Gordon Smith e di quella occasione che era la palla della vita. Ma un giorno di agosto del 2018, la Premier League ha sostituito la First Division, il Brighton gioca nel suo nuovo stadio e il Manchester United di Mourinho viene battuto 3-2.

Il calcio, come la vita, sistema le cose da sé, a volte. E anche Freddie da lassù avrà sorriso…

A proposito di Stefano Ravaglia

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