La punizione della salvezza: quando Mwepu Ilunga sfidò il dittatore con un calcio al pallone

Sembrava un gesto ingenuo, fu un atto eroico: il Mondiale dello Zaire nel 1974 è il racconto di una squadra usata come vetrina da un regime dittatoriale, fino a quel calcio disperato che salvò vite e urlò al mondo la verità.

Nel cuore dell’Africa, tra giungla e paura, nasce una delle storie più toccanti e dimenticate della storia del calcio. È il 22 giugno 1974, si gioca Brasile-Zaire a Gelsenkirchen, terza giornata del girone A del Mondiale in Germania Ovest. Mancano cinque minuti alla fine, i verdeoro sono avanti 3-0, quando viene fischiata una punizione dal limite dell’area per i campioni in carica. Mentre Rivelino si prepara a calciare, un difensore dello Zaire esce improvvisamente dalla barriera e scaraventa via il pallone con un calcio rabbioso, tra lo stupore degli avversari, dell’arbitro, del pubblico e del mondo intero.

Quel giocatore si chiama Mwepu Ilunga, e quel gesto apparentemente folle, deriso da milioni di telespettatori come l’ingenuità di un africano che non conosce le regole del gioco, era in realtà un atto di ribellione, un grido silenzioso, un calcio disperato alla paura. E, forse, un gesto che ha salvato delle vite.

LO ZAIRE DI MOBUTU: ORGOGLIO AFRICANO O VETRINA DI POTERE?

Per capire quel calcio, bisogna tornare indietro, molto indietro. Nel 1965, grazie all’appoggio degli Stati Uniti e della CIA, Joseph-Désiré Mobutu prende il potere in Congo. Si fa incoronare Mobutu Sese Seko, instaurando un regime personalista, autoritario, violento. Cambia il nome del Paese in Zaire, come simbolo della nuova politica di “autenticità africana”: via gli abiti occidentali, via i nomi coloniali, via tutto ciò che non fosse “africano”.

Mobutu è ossessionato dal controllo. Il calcio, come ogni dittatore ben sa, è un’arma potente: può unire il popolo, può creare consenso, può diventare propaganda. Così investe milioni di zaïri per costruire una nazionale competitiva. Chiama i migliori talenti del campionato locale, li fa allenare in condizioni dure ma privilegiati rispetto alla popolazione, li promette ricompense: auto, case, gloria. Ma solo se non faranno sfigurare il Paese.

Nel 1974, lo Zaire si qualifica ai Mondiali in Germania Ovest: è la prima nazione dell’Africa nera a riuscirci. Mobutu è euforico: è il suo trionfo personale, è la prova che il suo Zaire è potente, moderno, rispettato.

L’INCUBO TEDESCO: DALLA SPERANZA ALL’UMILIAZIONE

All’esordio contro la Scozia, lo Zaire perde solo 2-0. È una sconfitta onorevole, ma non per Mobutu. Dopo la partita, gli agenti dei servizi segreti zaïresi raggiungono i giocatori: li avvertono che se avessero osato fare peggio, ci sarebbero state “gravi conseguenze”. I premi promessi non arriveranno. La pressione psicologica esplode.

Contro la Jugoslavia, lo Zaire crolla 9-0. È la peggior sconfitta della storia dei Mondiali. Mobutu è furioso. Convoca una riunione via telefono con i capi della delegazione. Dà un ordine agghiacciante:

“Se contro il Brasile perdete con 4 gol di scarto o più, non tornate più a casa.”

Il terrore cala sul ritiro. I giocatori sono paralizzati, svuotati, depressi. Sanno che il Brasile è infinitamente più forte, ma devono fermarsi a tre gol. Devono lottare per la propria sopravvivenza.

Contro i brasiliani, lo Zaire resiste. Subisce tre gol ma non crolla. E al minuto 85, arriva quella punizione dal limite. I giocatori nella barriera tremano. Lo 0-4 sarebbe la loro condanna. Ed è lì che Mwepu Ilunga si prende la responsabilità. Esce dalla barriera e calcia via il pallone con forza, come per dire: “No. Non ci ucciderete così.” Il gesto rallenta il gioco, spezza il ritmo, getta confusione anche nei brasiliani. Ma soprattutto, manda un messaggio al mondo.

Oggi il suo gesto viene riletto con occhi diversi. Non è più solo il “fallo più strano della storia dei Mondiali”, ma un simbolo di ribellione silenziosa, una pagina di dignità africana contro l’oppressione. Ha lasciato un messaggio eterno, inciso con un semplice calcio a un pallone.

L’UOMO DIETRO IL GESTO

Dopo il Mondiale del 1974, la vita di Mwepu Ilunga prese una piega amara. Allontanato dalla scena calcistica e ignorato dal regime che lo aveva usato come pedina, visse nell’anonimato e nella povertà. Solo anni dopo, in un’intervista al Daily Telegraph, rivelò la verità su quel calcio alla punizione brasiliana: non fu ignoranza, ma ribellione, disperazione, coraggio. Nessun premio, nessun riconoscimento arrivò da parte di FIFA e CAF per quell’atto che, forse, salvò delle vite. In quell’intervista si mostrò deluso e amareggiato, raccontando che lui e i suoi compagni erano stati dimenticati da tutti, poveri e senza futuro, dopo essere stati usati come vetrina del potere.

Come molti dei suoi compagni, fu messo ai margini dalla dittatura di Mobutu. Nonostante avesse militato in una delle squadre più forti dello Zaire, il TP Mazembe, e avesse vinto due Coppe d’Africa con la Nazionale (1968 e 1974), fu abbandonato dal sistema sportivo e politico.

Morì dimenticato il 8 maggio 2015 a 66 anni nella miseria, dopo una lunga malattia in un ospedale di Kinshasa, senza gloria ma con una dignità che il tempo ha finalmente imparato a riconoscergli. Oggi, quel gesto vive come un’icona silenziosa di libertà, perché a volte, anche nel calcio, un semplice calcio al pallone può diventare un calcio alla paura.

UN CALCIO CHE HA FATTO PIU’ RUMORE DI UN GOL

Solo anni dopo, Mwepu raccontò la verità. Disse che non fu ignoranza, fu paura. Fu protesta. Fu coraggio. Disse che voleva rallentare il gioco, guadagnare secondi, qualsiasi cosa pur di evitare la catastrofe. Disse che Mobutu era pronto a tutto, e loro erano solo pedine sacrificabili.

Quella partita finì 3-0. Lo Zaire tornò a casa. Nessuno fu fucilato, ma molti giocatori furono puniti con l’esilio, la miseria o la scomparsa dai radar. La favola africana si era trasformata in incubo. Ma quel gesto isolato, confuso, incompreso, oggi vive come uno dei più nobili della storia del calcio. Il calcio non è solo sport. È teatro della vita, delle sue ingiustizie e dei suoi miracoli. Lo Zaire del 1974 ci ha lasciato una lezione amara e potente: anche in campo, ci sono momenti in cui un pallone può valere la libertà.

E se oggi ricordiamo Mwepu Ilunga, non è per un errore comico da moviola, ma per un calcio alla paura. Un calcio alla dittatura. Un calcio che ha protetto vite e raccontato al mondo una verità scomoda, che nessun microfono avrebbe mai potuto trasmettere.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.