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MotoGP, la riduzione della cilindrata: un’idea (per nulla) innovativa e (non proprio) brillante

Le voci su una possibile riduzione della cilindrata da 1000cc a 850cc sono aumentate sul finire del 2023, ma che sia questa la strada corretta da imboccare? Pensando al 2007, non si direbbe.

di Alyoska Costantino

Nel pieno di una pausa invernale che anticiperà una stagione 2024 sicuramente ricca di contenuti, la MotoGP potrebbe intravedere all’orizzonte un nuovo massiccio cambiamento regolamentare. La notizia, di per sé, non dovrebbe sorprendere più di tanto: sin dalla nascita della categoria nel 2002, in sostituzione della mai dimenticata 500cc, la massima serie dei prototipi su pista ha attraversato diverse fasi, dalle 990cc alle 1000cc odierne, passando per i regolamenti CRT/Open, il monogomma, le novità del format come la Sprint Race e molto altro ancora.

Cosa ci si potrebbe aspettare, però, sul futuro a medio-lungo termine della MotoGP? Pur vantando una griglia di ventidue moto full-time, il rischio d’incanalarsi verso un baratro molto profondo c’è: un po’ come successo in passato, il monopolio di un costruttore (Honda in passato, Ducati nel presente) sta stringendo in una tenaglia la categoria e ciò va a condizionare ogni singolo fattore sportivo e regolamentare della stessa, dagli aspetti tecnici a persino il mercato piloti. Il ritiro di Suzuki, in tal senso, potrebbe esser stata un’avvisaglia preoccupante.
Basti pensare al completo rinnovamento del sistema di concessioni e limitazioni. Il vantaggio della Casa di Borgo Panigale guadagnato quest’anno con diciassette vittorie su venti appuntamenti (a cui vanno aggiunte le sedici medaglie d’oro delle diciannove Sprint disputate) è stato a dir poco imbarazzante per i diretti competitor e, con 700 punti conquistati su 728 disponibili, le Desmosedici in griglia dovranno far fronte a severi limiti da quest’anno, il cui impatto nell’arco di un mondiale sarà però da valutare.

Non è però solo il dominio della Casa specifica a spaventare, quanto il livello tecnico continuamente al rialzo delle MotoGP, oramai sempre più somiglianti a delle astronavi anziché a delle motociclette. Carene, alette, freni in carbonio, abbassatori meccanici, diffusori, serbatoi modificati e chi più ne ha, più ne metta. Fare anche solo un confronto visivo tra le moto del 2023 con quelle di appena una decina d’anni fa permette di comprendere il grado d’estremizzazione tecnica (soprattutto aerodinamica) raggiunto dalla serie.

Ciò si traduce sì in moto sempre più veloci, ma anche sempre più provanti sul fisico. Durante la stagione 2023 si sono viste scene preoccupanti, specie durante le trasferte asiatiche dove il caldo e l’umidità hanno messo a durissima prova i piloti. E’ ancora scolpita negli occhi di molti le immagini di Jorge Martín in India, quando al termine del Gran Premio ha imboccato in fretta e furia la pitlane in direzione del box, nella speranza di avere un po’ d’acqua e di refrigerazione dopo i ventuno giri affrontati al Buddh Circuit.

A ciò fanno eco anche le dichiarazioni dei piloti, come ad esempio quelle di Fabio Quartararo che, oltre ad essersi schierato fermamente contro la Sprint Race, ha anche fatto notare lo sforzo fisico a cui lui ed i suoi colleghi devono andare incontro ad ogni weekend. Spaventano anche i numeri: nessun Gran Premio quest’anno ha visto i ventidue piloti titolari sulla griglia di partenza insieme tra infortuni e defezioni e, su quarantuno manche (contando anche le Sprint), ci son stati 90 casi di mancate partenze per dolori o acciacchi di piloti.

Ciò da cosa può essere dettato? Sicuramente l’aver aumentato il numero delle partenze non è stata una buona mossa (e, a posteriori, stonano ancora parecchio le parole di Jorge Viegas, presidente della FIM, durante la presentazione delle Sprint Race avvenuta nel 2022, quando si parlava in termini entusiastici per il gran numero di partenze senza un occhio di riguardo per i possibili rischi), ma come detto lo sforzo fisico e mentale a cui sono andati incontro i protagonisti dell’ultimo campionato è stato sicuramente significativo.

Il non aver mai posto dei seri paletti sugli sviluppi delle moto sta diventando controproducente in questo momento per Dorna e soci. Nel corso del tempo sono stati posti dei limiti come il numero dei motori, il congelamento al loro sviluppo, l’omologazione delle carene e l’introduzione della centralina unica, ma nel computo totale sono sembrati tentativi troppo deboli a fronte dell’evoluzione senza sosta che stava procedendo su altri reparti, quali lo sviluppo aerodinamico e il miglioramento degli impianti frenanti.

La prossima mossa quale potrebbe essere per limitare le prestazioni dei prototipi in questione? La Federazione pare voler giocare un asso nella manica già usato in passato, ovvero la riduzione della cilindrata: nel 2007 iniziò quella che potrebbe essere definita come la seconda era MotoGP, con la scelta di ridurre la cubatura dei motori a 800cc, cifra rimasta inalterata fino al 2012.

Sulla carta, l’idea non sarebbe malvagia: una riduzione delle cilindrate comporterebbe una riduzione anche in termini di potenze, dunque la possibilità di ridurre almeno di un po’ l’intervento dell’aerodinamica, magari anche decrescere la forza frenante dei freni e via discorrendo. Modificando un solo elemento, se ne sistemerebbero molti altri in una sorta di effetto domino.

La domanda, però, sorge spontanea: si tratta davvero di una soluzione vincente? Il ricordo storico che si ha del 2007 parrebbe dare un riscontro diverso. Per fare un rapporto già molto significativo, si può prendere in esame il Gran Premio del Qatar nelle edizioni 2006 e 2007.

Nella prima, Valentino Rossi su Yamaha conquistò la sua prima vittoria dell’anno davanti a Nicky Hayden e Loris Capirossi. Nella seconda Casey Stoner iniziò alla grande la sua avventura in Ducati vincendo proprio davanti a “The Doctor”, con Daniel Pedrosa terzo ma ben più staccato. In mezzo un grosso cambio regolamentare, ma non sono i risultati sportivi che devono essere messi sotto la lente d’ingrandimento, quanto più le prestazioni sul giro secco, in gara e ai rivelamenti della velocità massima.

Partiamo dal primo dato della qualifica: nel 2006 Stoner, stavolta debuttante in sella alla Honda RC211V di Lucio Cecchinello, conquistò la sua prima pole in 1:55.683. Dodici mesi dopo circa fu la volta di Rossi di conquistare la prima casella dello schieramento, con un tempo di 1:55.002, ergo più di 0”6 più veloce dell’anno prima nonostante la diminuzione della cilindrata ed anche il contingentamento degli pneumatici.
Ancora più grande la forbice per quanto riguarda i tempi in gara: il giro più veloce del 2006 fu di Rossi in 1:57.305, battuto di quasi otto decimi da “Bastoner” un anno dopo. Curioso, inoltre, che l’1:56.528 fatto dall’australiano sia stato realizzato all’ultimo dei ventidue giri previsti. Anche il tempo di gara venne limato di parecchio, pari a 20” in meno.

Si potrebbe pensare che tutto il guadagno sia stato frutto dell’avanzamento tecnico naturale da un anno all’altro o al miglioramento degli pneumatici (specie in un’epoca di lotta fra i gommisti, con Bridgestone e Michelin a farla da padroni), e resterebbe il dato della velocità di punta a cambiare le cose. Ma, sorpresa sorpresa, anche qui il passo indietro sulle cilindrate non ha portato a granché in termini di calo delle performance: nel 2006 la velocità media maggiore fu di Dani Pedrosa con 319,8 km/h, mentre l’anno dopo essa appartenne ad Alex Barros (non sorprende che fosse su una Ducati), a quota 316,3.

Va detto, in tal senso, che sul dato della velocità di punta certe Case subirono il contraccolpo più di altre (su tutte le Yamaha M1, che persero da un anno all’altro qualcosa come 14 km/h), ma in ogni caso si tratto di un calo fin troppo minimo per poter dire che, nel 2007, ci fu un abbassamento delle prestazioni, cosa comunque smentita dai tempi sul giro.

Ciò cosa ci porta a pensare? Probabilmente che limitarsi ad un semplice cambio della cilindrata nella speranza che tutto il resto cambi automaticamente, è fin troppo utopistico. La riscrittura del regolamento tecnico, se mai avverrà, dovrà essere fatta in maniera attenta, precisa ma soprattutto massiccia da parte della FIM, in modo da non dover ricominciare punto e a capo e trovarsi moto ugualmente veloci nonostante gli sforzi.

Di preciso, la lista di cose da rivedere è composta principalmente dai freni, dalle appendici aerodinamiche e dagli abbassatori. Bandire alcuni materiali (come il carbonio) per gli impianti frenanti porterebbe a riallungare un po’ gli spazi di frenata (agevolando quindi i sorpassi e le battaglie), mentre l’imposizione di alcune misure limitanti sulle alette delle moto eviterebbero scene come quelle avute in molteplici Gran Premi del 2023, con parti che si staccavano al minimo contatto in quanto estremamente fragili. Anche gli abbassatori, pur constatando il miglioramento delle prestazioni, sarebbero da rivedere nell’utilizzo e magari permetterne l’attivazione solo all’avvio di gara, per abbassare il rischio di guasti e perdite dei componenti.

E’ chiaramente facile parlare da fuori e fare queste valutazioni senza tenere il conto delle spese che un marchio in MotoGP dovrebbe comportare rivedendo i propri progetti, ma è anche vero che l’esagerazione a cui si sta arrivando rischia di portare a serie conseguenze. Ripensando a storie dolorose e mai dimenticate del motorsport, il “laboratorio di mostri” del Gruppo B nei rally venne fermato solo dopo una serie di tragedie nell’arco di due anni. Fare qualcosa solo quando il disastro si palesa non può e non deve essere la soluzione.

Vedremo se Dorna e compagnia hanno imparato la lezione, ma il timore che si rimarrà a guardare senza che verrà fatto nulla attivamente c’è, come già avvenuto nel recente passato del Motomondiale.

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