Var o non var, comunque è un problema

Polemiche mai sopite, insoddisfazione al di là delle decisioni. De Laurentiis invoca il var perenne, Gravina propone quello “a chiamata”. La situazione sta sfuggendo di mano. Ma quel che manca è l’accettazione di qualsiasi decisione…

 

di Stefano Ravaglia

 

Shakespeare almeno aveva le idee chiare. Il problema, nel suo “Amleto”, era essere o non essere. Da quando il calcio ha aperto le porte alla tecnologia, continuano invece, almeno in Italia, ad esserci tanti punti di poca chiarezza e pare che la situazione non sia di facile risoluzione. Chi scrive, non ama generalmente trattare l’argomento arbitrale perché di carne al fuoco a questo proposito ce n’è già abbastanza, direi troppa. Spiegazioni fornite dai designatori che non convincono gli allenatori, decisioni comunque contestate, ora, dopo il rigore concesso alla Juventus in coppa Italia contro il Milan, anche l’idea suggerita da Gravina di un var “a chiamata”, tipo il challenge del tennis.

Discorsi che vanno in una direzione opposta a ciò che dovrebbe essere, ossia una profonda riflessione sul fatto che questo strumento sia o meno all’altezza della situazione, anche perché il suo ingresso in serie A risale al 2017, per cui la scusa del perfezionamento comincia a diventare vecchiotta.

Ma soprattutto, quella di Gravina è una proposta zeppa di diverse contraddizioni. Chiamare il var, magari da parte degli allenatori dalla panchina, è superfluo e totalmente insignificante a livello di cambiamento della procedura: siamo sicuri che la chiamata consentirebbe un accordo definitivo tra le parti? Se Valeri fosse stato chiamato a verificare il fallo di Calabria da parte di Sarri, e avesse, come ha fatto, assegnato ugualmente il rigore, i giocatori del Milan sarebbero stati concordi?

Il problema di fondo è solo uno: la mentalità di un paese aggrappato disperatamente alle polemiche arbitrali, soprattutto sul fronte mediatico, che consentono di tener viva la gazzarra, aumentare i like e vendere copie, nonché inferocire ancor di più i tifosi. Le bacheche di Facebook dopo Milan-Juventus sono state colme d’odio, come da sempre capita anche al di fuori del calcio, ma soprattutto quando si parla di pallone o di politica. Di questo ne faremmo volentieri a meno, anche perché le partite non si possono sempre ridurre a un riassunto di torti o favori che compongono un punteggio.

Sulle pagine del Corriere dello Sport, poi, è arrivata la bizzarra invettiva di De Laurentiis: il presidente del Napoli ha chiaramente detto che il var andrebbe utilizzato continuativamente, e ogni torto subito è un danno economico al club. Arrivando al punto di dire che se i club fermassero il campionato per i torti subiti, sarebbe una cosa che farebbe “breccia”. Insomma, il caos, come pieno stile italico, regna sovrano e qualsiasi episodio è buono, ogni tre giorni, per deviare le prestazioni, le sconfitte o le cose di campo sul versante arbitrale.

La situazione in questo ambito è molto molto più profonda: nel più totale silenzio, Nicchi prenderà il quarto mandato all’AIA come direttore dei fischietti. Il terzo lo ottenne nel 2016 cambiando anche la percentuale di quorum necessaria, dal 66 al 55%, e continuando a proteggere e difendere i proprio dipendenti in qualsiasi modo, anche il più sgradevole e battagliero. Alternanza di governo? Un miraggio. Riforme, cambiamenti, aria nuova, cose che anche nel governo del calcio non sono contemplate. L’unico arbitro a Euro 2020 sarà Orsato, e in Qatar nel 2022 gli arbitri italiani rischiano di non comparire nemmeno.

Tornando alla questione del var visto come “challenge”, Gasperini si rifiuta, comprensibilmente: “Non faccio l’arbitro”. Per Conte è inutile, Ranieri ci va giù docile com’è nel suo stile garbato: “La chiamata da parte nostra sarebbe divertente, bisogna vedere cosa ne penserebbero gli arbitri!”.  Ciò che continua a non cambiare mai, è la mentalità: che lo decida il direttore di gara, o la tecnologia, per la maggior parte di allenatori e presidenti del calcio italiano, il torto arbitrale c’è e ci sarà sempre.

E allora è impossibile che le cose cambino, se non cambia la mentalità, cosa assai più ardua in un paese dove è ormai radicata la lamentela e la poca cultura del lavoro e di crescita che permetta al calcio italiano di uscire da sabbie mobili diplomatiche e tecniche in cui si trova da anni. Dunque, alla fine, ha ragione Ulivieri: “Arrivare al 100% senza errori è impensabile”. Ma in Italia proprio non riusciamo a capirlo.

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