Dal campo di calcio all’apocalisse: la bomba di Nagasaki vista da un calciatore

Dai goal sui campi inglesi all’inferno di Nagasaki: la storia incredibile di Johnny Sherwood, il calciatore che sfuggì alla bomba atomica e tornò a giocare

Quella mattina del 9 agosto del 1945, il fragile Johnny camminava come un’ombra tra i carri della fabbrica. Il suo corpo emaciato era avvolto in stracci logori, i piedi in espadrillas consumate. Sulla testa, un cappello sbiadito a malapena lo riparava dal sole cocente. La pelle abbronzata e butterata raccontava la storia di tre anni passati in un inferno. Catturato dai giapponesi a Singapore, quando gli inglesi subirono amare sconfitte, Johnny Sherwood fu mandato nel campo di prigionia 25-B, vicino alla fabbrica in cui ora, da nemico, doveva lavorare come schiavo. La fame, le torture e le malattie lo avevano ridotto a poco più di un ammasso d’ossa. Ma Johnny resisteva, aggrappato alla vita e alla speranza.

Quella mattina, il fragore assordante fece istintivamente chinare la testa a Johnny. Quando rialzò lo sguardo verso Nagasaki, vide una nube nera sollevarsi a spirale, allargandosi in un fungo letale. Tra il grigio, lampi di luce come gioielli luccicavano nel cielo. Johnny, nella fabbrica sulla costa opposta, stava assistendo al secondo lancio della storia di una bomba atomica. Ancora una volta, per un soffio, si era salvato da una morte annunciata. Sua madre lo chiamava “Lucky Johnny” ancor prima della guerra. Nonostante tutto l’orrore, quel ragazzo sembrava davvero baciato dalla fortuna.

Quando mise piede in Inghilterra, Johnny aveva solo tre desideri nel cuore. Riabbracciare i suoi cari, bere una pinta nel pub di famiglia e tornare ad indossare la maglia del Reading, la sua squadra. Il calcio era sempre stata la sua passione. Anche nei momenti più bui da prigioniero, sognava il verde del campo, ricordava i suoi gol, immaginava di giocare ancora. E ci riuscì. Bisognava essere davvero tosti per sopravvivere a tre anni nei peggiori campi di prigionia e ancora avere la forza di giocare, ma Johnny era speciale, anche se allora nemmeno la sua famiglia poteva immaginarlo. Quel ragazzo magro e segnato dalla vita era pronto a stupire tutti.

Durante la prigionia, il calcio fu per Johnny sia fonte di speranza che mezzo di sopravvivenza. Un giorno, una guardia gli propose uno scambio: insegnargli alcuni trucchi con il pallone in cambio di cibo. Johnny accettò e l’uomo mantenne la promessa, permettendogli di sfamare anche i compagni malati. Nonostante questi brevi momenti di sollievo, la vita nel campo restava un inferno. Johnny stesso contrasse la malaria e sfiorò la morte. Ma quel ragazzo magro e provato aveva una forza interiore che nemmeno gli aguzzini riuscivano a spezzare. La passione per il calcio lo teneva aggrappato alla vita.

Per anni la famiglia ignora le terribili vicende vissute da Johnny durante la guerra. Solo nel 2012 il nipote Michael trova in una scatola polverosa il manoscritto intitolato “Il giro del mondo”, in cui il nonno aveva raccontato la sua odissea. Increduli e commossi, decidono di far conoscere quella storia al mondo: contattano giornalisti ed editori per trasformare quelle pagine in un libro. Nel 2014 esce “Lucky Johnny”, il ritratto di un uomo che ha attraversato l’inferno e ha trovato la forza di rinascere grazie alla sua passione per il calcio. Una testimonianza preziosa che finalmente rende giustizia alla vita avventurosa di Johnny.

La passione di Johnny per il calcio emerge già in tenera età. Notato mentre gioca al parco, viene ingaggiato dal Reading, la squadra per cui fa il tifo il padre. In poco tempo il robusto attaccante passa in prima squadra, facendosi notare. Nel ’38 arriva la chiamata del Corinthians Islington, team dilettantistico che organizza tour benefici. Con loro Johnny fa il giro del mondo, 71 presenze e 70 gol. Il nipote ricorda i suoi racconti di viaggio: “Ci parlava delle partite, di come l’esercito li scortasse in Birmania tra banditi”. Johnny allora non poteva immaginare che avrebbe rivisto quei luoghi, ma con un’altra uniforme, quella militare. La guerra avrebbe presto trasformato quei campi da sogno in un incubo, ma non riuscì a spegnere la passione di Johnny.

La guerra irrompe nel momento d’oro di Johnny. Bomber affermato con il Reading, corteggiato dai grandi club, aveva appena sposato Christine, eletta Miss Reading, dalla quale aveva avuto il primogenito Philip. Quando saluta la moglie incinta al porto di Southampton, sta per affrontare una missione che non immagina ancora quanto segnerà tragicamente il suo destino. Arruolatosi in artiglieria, la sua unità viene dirottata a Singapore mentre è in viaggio verso l’Iraq. Dopo l’attacco di Pearl Harbor, si apre il fronte nel Pacifico contro il Giappone. Singapore, gioiello dell’Impero britannico, sta per cadere dopo un lungo assedio e per Johnny inizia lì un inferno che segnerà per sempre la sua vita. La guerra spezza i sogni del giovane campione che sta per conoscere l’abisso dell’orrore, ma non riuscirà a spegnere la sua passione per il calcio.

Anche dietro il filo spinato, Johnny non rinuncia alla sua passione. Nel cortile del carcere organizza partite di calcio con altri prigionieri, per tener vivo il sogno di giorni migliori. Ma quelle sfide hanno vita breve. I giapponesi li deportano nei campi nella giungla, ridotti a schiavi per costruire una ferrovia tra Birmania e Thailandia. In quell’inferno, tra fame, torture e malattie, sembra non esserci più spazio per il gioco che Johnny ama. Eppure, anche lì troverà il modo di palleggiare, barattando qualche numero con il cibo per tirare su il morale degli altri prigionieri. Il calcio come valvola di sfogo e simbolo di speranza, l’unica luce in quel buio pesto che non riesce a spegnere la passione nel cuore del campione.

Nella prigione di Changi, Johnny riconosce tra le guardie un volto familiare: anni prima avevano giocato uno contro l’altro a Yokohama. I due si guardano in silenzio, Johnny teme torture, l’altro sembra a disagio. Nonostante tutto, Johnny organizza partite di calcio nel cortile, un barlume di normalità subito stroncato. Vengono deportati nei campi nella giungla, ridotti a schiavi per costruire la ferrovia tra Birmania e Thailandia, in quel luogo di stenti reso celebre dal film “Il ponte sul fiume Kwai”. Johnny è lì, patisce quell’inferno. Quando anni dopo vede il film coi parenti, si limita a dire che la realtà era stata persino peggiore. Il calcio era stato una fugace valvola di sfogo, subito soffocata dall’orrore. Ma Johnny resiste, aggrappato alla vita e alla speranza.

Nei campi, i giapponesi seviziavano i prigionieri per spezzarne la volontà. Fame, sfinimento, punizioni brutali anche per un misero furto di cavolo. Johnny le subisce, come quella volta picchiato per mezz’ora. Ricorderà poi che non bisognava reagire, solo stringere i denti fino a crollare. Ogni giorno muoiono compagni, corpi distrutti da piaghe e denutrizione. Eppure vengono costretti a costruire ponti per la ferrovia, spesso da rifare perché gli ingegneri usano legno verde. Molti crollano, trascinando treni nel baratro. È un calvario che segna nel profondo Johnny, ma non riesce a spezzare quel ragazzo che resiste aggrappato alla vita, ai ricordi della sua passione. Il calcio come luce interiore che nemmeno gli aguzzini possono strappargli dall’anima.

In quell’inferno, il calcio è un’insperata valvola di sfogo. Quando i giapponesi scoprono tra i prigionieri un calciatore, il loro atteggiamento cambia. Johnny racconta della tournée in Giappone, dell’incontro col generale Tojo, ora Primo Ministro. Un sergente si offre di proteggerlo. Organizzano partite, che i giapponesi vincono facilmente ma gli inglesi accettano pur di evitare torture. Per Johnny è struggente vederli amichevoli sul campo e poi spietati. Un giorno una guardia gli chiede di insegnargli trucchi col pallone in cambio di cibo, mantenendo la promessa. Johnny lo divide coi compagni malati, rischiando la vita per malaria. Dicono scherzasse col sacco pronto per il suo corpo. Per i sopravvissuti è un punto di riferimento, con la sua ironia tiene alto il morale.

Quando la nave che li trasporta affonda, Johnny si getta in mare aggrappandosi a un relitto. Per diciassette ore galleggia tra i flutti insieme ad altri sei, pregando di essere raccolti da una nave alleata. Invece appare una baleniera giapponese: undici mesi di schiavitù lo aspettano ancora. Nonostante tutto Johnny resiste, la sua fibra e la passione per il calcio gli infondono la forza di andare avanti. Quel naufragio sembra l’ultimo colpo del destino crudele che si accanisce su di lui, ma alla fine sarà la rinascita. La guerra non può spezzare il campione, che tornerà a calcare i campi verdi della sua amata Inghilterra.

Nel ’44 i prigionieri vengono stipati come animali sulla nave Kachidoki Maru diretta in Giappone. Legati nelle stive fetide, senza possibilità di andare in bagno nonostante le malattie. Mentre doppia Hainan, i siluri di un sottomarino colpiscono la nave. Johnhy è sul ponte, gli altri 800 intrappolati sotto. Ricorderà sempre quei volti terrorizzati, le braccia tese invano verso la scala. Impotente, guarda l’abisso inghiottire i compagni. Sappiamo poi che gli USA sapevano della presenza di prigionieri, ma colpirono lo stesso quel convoglio di truppe, minerali e ceneri di soldati giapponesi. Per centinaia di uomini, il mare diventa l’ultima, beffarda tomba. Ancora una volta Johnny si salva per miracolo, segnato a vita da quelle immagini che lo perseguiteranno negli incubi. Ma quell’orrore non può spezzare la sua fibra.

Dopo 17 ore aggrappato a un relitto, Johnny viene raccolto da una nave, sperando siano alleati. È invece una baleniera nemica: altri 11 mesi di schiavitù lo attendono. Una mattina d’agosto, invece delle bombe, i B-29 gettano volantini: “L’impero giapponese si è arreso incondizionatamente”. Sono passati 5 giorni dal fungo atomico su Nagasaki, che Johnny ha visto sorgere da lontano. La guerra è finita, ma ci vorrà tempo perché finisca nella sua mente. I sopravvissuti sono ombre, corpi distrutti nell’anima oltre che nel fisico. Ma anche l’abisso più nero non ha potuto spezzare la passione che arde nel cuore del campione. Il calcio tornerà a far battere quel cuore provato.

Quando Johnny rimette piede in Inghilterra, ritrova moglie e figli, anche la piccola Sandra nata durante la sua prigionia. Riprende il lavoro di famiglia al pub, la carriera calcistica, anche se il fisico provato non regge più 90 minuti. Sembra un uomo realizzato, ma dentro covano dolore e traumi. Persino a 60 anni, giocando coi nipoti, domina il campo. Ricorderanno però il suo rifiuto di comprare giapponese: il passato è una ferita aperta, fonte di incubi notturni; isedativi non funzionano, solo scrivere dà pace, placando gli incubi. Per anni riempie pagine ingiallite non destinate alla pubblicazione, terapia per elaborare il vissuto. Quando nell’84 muore d’infarto, lascia una preziosa testimonianza riscoperta dai familiari. La scrittura gli restituisce la serenità che la guerra gli aveva tolto.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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