La “Generazione d’oro” jugoslava: storia di un’occasione mancata

Quando la guerra infranse i sogni della Jugoslavia dorata: talenti senza patria e illusioni di gloria perdute

A più di trent’anni dalla dissoluzione della Jugoslavia, è interessante domandarsi cosa sarebbe successo se quella federazione di stati balcanici fosse rimasta unita. La Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito, era emersa dalla Seconda guerra mondiale come stato socialista multietnico e pur con tutte le sue contraddizioni interne, negli anni ’80 godeva di una certa stabilità e di un tenore di vita superiore a quello dei suoi vicini.

Con la caduta del blocco sovietico, però, le spinte nazionalistiche riesplosero, portando a sanguinosi conflitti in Slovenia, Croazia e Bosnia. Oggi, a distanza di decenni, viene da chiedersi se una transizione pacifica verso la democrazia sarebbe stata possibile. Forse una federazione riformata avrebbe potuto entrare nell’Unione Europea, diventando un modello di convivenza tra popoli diversi. Invece, le tensioni etniche erano troppo radicate per essere risolte senza spargimenti di sangue.

L’EMBARGO SPEZZÒ I SOGNI BALCANICI

Le guerre jugoslave degli anni ’90 restano una ferita aperta nella coscienza europea. Quel conflitto fratricida, nato dal crollo di una federazione multietnica tenuta insieme per decenni, provocò lutti e sofferenze indicibili. L’embargo sportivo del 1992 contro quegli stati un tempo uniti sotto un’unica bandiera non fu che un pallido riflesso del dramma vissuto da quelle popolazioni.

Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina: tutte scendevano ora in campo da sole, separate da odio etnico e rivalità nazionalistiche. Mentre infuriavano gli scontri, villaggi rasi al suolo e pulizie etniche, il calcio jugoslavo si frammentava irreparabilmente. La Stella Rossa di Belgrado, campione d’Europa nel 1991, non avrebbe più vinto nulla a livello internazionale. Un’intera generazione di talenti balcanici veniva sacrificata sull’altare di una guerra fratricida che lasciò sul campo oltre 130mila morti e milioni di profughi, facendo svanire il sogno di una Jugoslavia unita per sempre.

L’embargo ONU del ’92 si abbatté come una scure sullo sport jugoslavo, privandolo di fatto della ribalta dell’europeo poi vinto clamorosamente dalla Danimarca e da quella olimpica. Le sanzioni internazionali resero la Jugoslavia una emarginata, bandita dal consesso delle nazioni civili. E così, alle Olimpiadi di Barcellona, per la prima volta non sventolò la bandiera con la stella rossa.

Al suo posto, sotto i cinque cerchi, sfilò una piccola delegazione di atleti indipendenti, fantasmi senza patria di una nazione ormai smembrata dall’odio etnico. Privati dei colori del proprio vessillo, quei campioni senza bandiera gareggiarono con dignità, vincendo cinque medaglie che ancora oggi figurano negli annali dei Giochi come conquistate da partecipanti olimpici individuali.

Un pugno di uomini e donne che resero onore allo sport jugoslavo anche nel momento della disfatta politica. Atleti che, per un attimo, fecero sventolare virtualmente quella bandiera che le sanzioni avevano ammainato nei palazzi di un’Europa incapace di evitare la tragedia balcanica.

Di sconosciuto – Matteo Cruccu (a cura di), 60 foto per i 60 anni del bellissimo romanzo della Champions League, su corriere.it., Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=5947727

L’ULTIMO CANTO DELLA STELLA ROSSA

Il calcio jugoslavo conobbe il suo canto del cigno nella finale di Coppa Campioni 1991, quando la Stella Rossa di Belgrado alzò la coppa dalle grandi orecchie allo stadio di Bari. Quella notte di maggio, Dejan Savićević e compagni batterono l’Olympique Marsiglia regalando l’ultimo trionfo alla Jugoslavia unita, prima che la guerra infrangesse per sempre quel sogno balcanico.

Soltanto un anno prima, gli scontri tra ultras di Dinamo Zagabria e Stella Rossa avevano anticipato il conflitto etnico che di lì a poco avrebbe insanguinato la regione. E dopo la vittoria del San Nicola, l’embargo pose fine bruscamente alla parabola del calcio jugoslavo.

Forse avremmo ammirato altre imprese europee di club balcanici, invece di veder trionfare solo le big dell’Europa occidentale o forse la Jugoslavia avrebbe vinto un Mondiale, spezzando una maledizione durata decenni?

Il calcio jugoslavo visse il suo periodo d’oro negli anni ’80, quando finalmente il regime allentò la morsa e permise ai talenti balcanici di mettersi in mostra oltre i confini nazionali. La Stella Rossa Belgrado, in particolare, incarnava lo spirito di quel movimento florido ma ingabbiato da decenni di isolamento politico.

Eppure, sul finire degli anni ’80, l’emergere di una talentuosa generazione faceva ben sperare. Nel 1987, ai Mondiali Under 20 in Cile, la Jugoslavia salì sul tetto del mondo. Sembrava l’alba di un’era di trionfi, dopo la delusione nella finale europea del ’68 contro l’Italia.

La vittoria ai Mondiali Under 20 aveva fatto intravedere un futuro radioso per il calcio jugoslavo. Quella promettente generazione di talenti, Zvonimir Boban e Robert Prosinecki su tutti, sembrava destinata a consacrarsi presto anche tra i grandi, magari già ai Mondiali ’90 in Italia.

Peccato che gli eventi precipitassero inesorabilmente: in uno sfortunato anticipo di quella guerra fratricida, Boban si rese protagonista di un gesto passato alla storia in Dinamo Zagabria-Stella Rossa, venendo escluso dalla spedizione italiana. Un duro colpo per la Jugoslavia, che pure a Italia ’90 diede spettacolo con le giocate di Dragan Stojković e la classe eterna di Faruk Hadžibegić.

I destini di Boban e compagni si divisero presto e per sempre, tra le macerie di una federazione multietnica smembrata dall’odio. Eppure, nei club che li accolsero in giro per l’Europa, quei talenti jugoslavi seppero affermarsi ad altissimi livelli. Davor Suker e gli altri: campioni senza patria, costretti a vagare lontano da casa alla ricerca di gloria. Chissà cosa avrebbero potuto vincere sotto un’unica bandiera: rimpianti infiniti per un calcio balcanico dalle potenzialità inespresse.

MONDIALI ’90: IL SOGNO INFRANTO

I Mondiali del 1990 in Italia rappresentano ancora oggi un grande rimpianto per il calcio jugoslavo. La nazionale di Stojković e Pancev si arrese solo ai rigori contro l’Argentina di Maradona, ma secondo alcuni una vittoria avrebbe potuto cambiare il corso della Storia.

In quel mix di talenti, le tensioni etniche sembravano passare in secondo piano. L’illusione che lo sport potesse tenere unita una federazione multiculturale destinata a disgregarsi di lì a poco. Due anni dopo, agli Europei svedesi, la Jugoslavia ci sarebbe arrivata ancora più forte e ambiziosa. Sinisa Mihajlovic, Vladimir Jugovic e altri campioni erano nel pieno della maturità calcistica. Il cammino di qualificazione fu trionfale, con il miglior attacco.

Cosa sarebbe successo se i rigori contro l’Argentina fossero andati diversamente? Forse quel gruppo di fuoriclasse jugoslavi avrebbe potuto ritardare il conflitto etnico ancora per un po’ oppure evitarlo come molte leggende narrano. Invece, il sogno di una vittoria mondiale capace di riscrivere la Storia rimase tale. E pochi anni dopo, la Jugoslavia calcistica cessò di esistere.

Il crollo fu repentino. In pochi mesi la nazionale perse via via i suoi campioni croati e sloveni, mentre il Paese sprofondava nel conflitto etnico. Persino il ct Ivica Osim, bosniaco, si dimise in segno di protesta per gli eventi bellici. Nonostante tutto, i rimanenti convocati jugoslavi si presentarono in Svezia, prima di venire estromessi per embargo. Svaniva così il sogno, lasciando spazio alla Danimarca che, contro ogni pronostico, avrebbe alzato la coppa.

Ironia della sorte, molti di quei talentuosi jugoslavi avevano preceduto da protagonisti proprio i danesi di Schmeichel a Laudrup nel girone di qualificazione. Chissà cosa sarebbe successo se la Jugoslavia non si fosse disgregata così drammaticamente. Forse oggi ricorderemmo gli Europei 1992 come il trionfo della classe balcanica, invece che della favola danese.

CROAZIA REGINA DEGLI EX JUGOSLAVI

L’embargo del ’92 segnò l’inizio della diaspora per il calcio jugoslavo. Privati della ribalta internazionale, i talenti balcanici emigrarono a frotte nei grandi campionati occidentali, arricchendo club italiani e spagnoli.

Solo la Croazia è riuscita a creare una competitiva nazionale con quei fuoriusciti, come testimoniano i traguardi raggiunti: terzo posto a Francia ’98, Qatar 2022 e finale a Russia 2018. Per il resto, è rimasto il rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere senza la tragica guerra civile.

Chissà se una Jugoslavia unita avrebbe vinto Europei e Mondiali, magari trascinata ancora dalla classe eterna di Prosinečki e Boban. O se la Stella Rossa avrebbe continuato a dominare in Europa. Domande senza risposta, a più di 30 anni dall’embargo che privò il calcio balcanico del suo massimo splendore sul palcoscenico continentale.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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