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Luciano Vassallo, oltre ogni confine: un baluardo tra razzismo e discriminazione

La vita di Luciano Vassallo, l’uomo capace di portare in cima al continente calcistico l’Etiopia. Eroe della Coppa d’Africa del 1962, leggenda del calcio etiope tra razzismo e discriminazione.

Di Davide Ravan

Si era una nazione unita da appena venti anni e già i confini della penisola, così soffici per tre quarti, con il Mediterraneo a cullarci le coste, ci stavano stretti.

Vi erano zone del paese che ancora nemmeno sapevano – o preferivano non sapere – di essere italiane e di conseguenza di essere suddite sabaude che già guardavamo a Sud, verso l’Africa, alla disperata ricerca di un lembo di terra da colonizzare per poterci sedere al tavolo delle grandi potenze imperiali.

È nel 1882, ventuno anni dopo l’unità, che il governo acquista i diritti di possesso della Baia di Assab, porzione di terra che si affaccia sul Mar Rosso, dalla compagnia di navigazione genovese Rubattino, che grazie all’intervento governativo evita il fallimento e può continuare a offrire servizi di piroscafo per chi intende muoversi via mare.

Appena tre anni dopo i possedimenti italiani nel continente africano si allargano: in seguito a un accordo con la Gran Bretagna, un contingente italiano prende possesso della città portuale di Massaua, sempre sul Mar Rosso.

Passano altri due anni e ci si rende conto che, oltre che parlare con le potenze europee, bisognerebbe prendere in considerazione anche chi quelle terre le abita da sempre. Il non considerarle nelle nostre mire espansionistiche non viene ben visto dalle milizie etiopi che, a Dogali -città di confine tra l’Etiopia e i possedimenti italiani -, attaccano l’esercito italiano causando quella che fino a quel momento è la più grave sconfitta della storia del regio esercito: in seguito agli scontri perdono la vita 430 soldati italiani.

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Questa sconfitta non ferma comunque la fame di colonie del regno sabaudo: nel 1889, sempre su iniziativa britannica, che vedeva nell’Italia un’avversaria per nulla pericolosa da controllare a differenza della Francia tanto temuta, il sultanato di Obbia, lembo di terreno che si affaccia sull’Oceano indiano in territorio somalo, passa sotto il protettorato italiano.

Nello stesso anno a Ucciali, in Etiopia, viene firmato un trattato di amicizia tra Etiopia e Italia. Ma siccome siamo certi di essere più furbi degli africani, nella versione italiana del trattato – e non in quella etiope – si sottolinea come le politiche estere dell’impero etiope passino sotto il controllo del Regno d’Italia. Menelik II, sovrano etiope, appena saputo della versione italiana del trattato, dichiara lo stesso carta straccia.

Vi risparmiamo le peripezie nel Mar Egeo, quelle in Libia e il qualche ettaro di terreno cinese finito sotto controllo italiano a inizio ‘900: questa introduzione serve a spiegare a tutti che il colonialismo italiano non nasce con l’avvento del fascismo ma molto prima, quando ancora l’Italia fatica a potersi definire nazione.

La vocazione colonialista germoglia dall’invidia per gli altri stati europei che, qua e là nel mondo, possiedono territori e controllano intere popolazioni. L’avvento del fascismo non fa che dare un’ulteriore spinta al desiderio di sopraffazione e, a farne le spese, sono ancora una volta gli africani e in particolar modo gli etiopi.

Impero fascista

Il 3 ottobre 1935, senza che agli ambasciatori interessati venga consegnato il formale atto di guerra, l’Italia invade l’Etiopia. Seguiranno mesi durissimi per la popolazione civile, che spesso – come documentato negli anni a venire- si vedrà attaccata dai gas chimici sganciati dagli italianiprimo esercito invasore della storia a fare uso di questi strumenti da criminali totali.

In primavera la resistenza dell’esercito di Hailè Selassie, imperatore etiope, cade e il 5 maggio 1936 l’esercito italiano entra ad Addis Abeba – la capitale etiope – e Mussolini a Roma dichiara la nascita dell’impero.

Nei mesi e negli anni a seguire, il regime cerca di incentivare gli italiani a lasciare la penisola e a trasferirsi nel Corno d’Africa, presentato dalla propaganda governativa come l’Eldorado dell’agricoltura. Ma, a discapito degli sforzi propagandistici, saranno molto pochi gli italiani che partiranno alla volta dell’Etiopia (circa 35.000) e sul suolo africano gli unici scarponi italici rimarranno quelli dei militari e dei gerarchi.

Gli italiani giunti in Etiopia sono principalmente uomini e sono in molti a fare come fece Indro Montanelli, il giornalista che fu militare volontario nella guerra etiope, che assieme a una capra e a un fucile al mercato acquistò anche una dodicenne che gli fece da concubina durante il suo soggiorno. “Ma le africane sono abituate!”, questa la sua giustificazione quando anni dopo gli venne chiesto conto di questa vicenda durante una trasmissione televisiva.

Come si diceva, sono in molti, se non tutti, gli italiani a fare così e in questo modo nasce una nuova figura che diversi grattacapi al regime creerà negli anni a venire: il meticcio, ossia il figlio di padre italiano e madre etiope (o somala, o eritrea, o libica…).

Il meticcio, nella maggior parte dei casi figlio di una relazione non stabile e in diversi casi accertati di stupro, molto spesso nemmeno saprà riconoscere il volto del padre per il resto della sua vita in quanto, essendo la figura paterna un militare o un gerarca italiano che si sposta di città in città sul territorio occupato militarmente, dopo il concepimento lo stesso lascia la donna in balia del proprio destino e si disinteressa completamente delle conseguenze del suo virile italico atto sessuale.

Nel 1937 il regime rende illegale il rapporto tra uomini italiani e donne etiopi: troppo chiacchiericcio si alza sulla condotta dell’esercito italiano in Etiopia e il governo, in un momento storico fatto di muscolarità geopolitica, non può permettersi di macchiare la sua figura di fronte a interlocutori importanti come la Germania di Hitler e il Regno Unito non ancora nemico di guerra. Il fenomeno dell’abbandono delle madri e dei figli meticci diventa la prassi: il frutto del rapporto sessuale proibito deve rimanere segreto.

Negli anni a seguire gli orfanotrofi di Addis Abeba e di Asmara si riempiono di meticci, troppo poco italiani per essere considerati tali e troppo poco etiopi per non subire le vessazioni della popolazione locale, che in loro vede il tradimento del proprio popolo e il prostrarsi al nemico.

I meticci prendono il nome di dqala, che potremmo tradurre in bastardi per rendere l’idea dell’odio degli etiopi verso questi figli del colonialismo.

Un campione tra gli sputi e le mattonate

Nella periferia dell’impero, in Eritrea, altro territorio soggiogato al regime fascista, nel 1935 da una relazione tra un militare italiano e una donna eritrea, nasce un bambino di nome Luciano.

Luciano Vassallo. Qualche anno dopo, nel 1940, nasce il fratello, Italo.

Il padre, poco dopo la nascita dei due, venne trasferito ad altra destinazione e di lui non si seppe più nulla. La madre, Mebrak, fece molta fatica ad accettare la nascita dei due fratelli, considerati dalla stessa figli del Diavolo – tanto per far capire quanto consenziente fu il rapporto con il padre -, che crebbero tra le vie polverose di Asmara, la capitale eritrea, e che dovettero imparare in fretta a difendersi con le cattive dagli insulti e dalle botte degli eritrei, che in loro vedevano il frutto marcio del colonialismo.

I due fratelli si fanno presto un nome tra le strade del quartiere: sono molto bravi con la palla tra i piedi e in più Luciano ha un carattere molto forte che lo fa resistere alle botte e alle mattonate che riceve per strada. I due crescono e Luciano, poco più che bambino, trova impiego nelle ferrovie eritree, primo vero impiego della sua vita.

Non è nemmeno adolescente che Luciano viene preso dal Gruppo Sportivo Stella Asmarina, squadra composta totalmente da meticci e militante nella Serie C eritrea. Come ricorderà lui stesso in un’intervista rilasciata al sito Storie di Calcio, durante la sua permanenza nella Stella Asmarina si dovevano allenare prima dell’alba, al buio, per evitare gli insulti della popolazione che però, puntualmente, arrivavano alla domenica durante le partite di campionato.

Come detto, Luciano è molto giovane ma si capisce che non è un giocatore come gli altri. Gioca terzino sinistro ma da subito pare sprecato in quel ruolo: testa alta, controllo esemplare del pallone, visione del gioco non comune, il suo ruolo non può essere quello e infatti, da lì a breve, verrà spostato in mezzo al campo dove diverrà il vero metronomo della squadra.

Grazie al suo lavoro nelle ferrovie trova un posto nella squadra dei ferrovieri di Asmara, militante in Serie B, che divenne il suo trampolino di lancio verso il calcio che conta.

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Nel giro di un paio di stagioni Vassallo arriva al Cotton Sport, formazione del cotonificio di Dire Dawa, distante più di mille chilometri dalla capitale Asmara (che nel frattempo non è più formalmente la capitale di un bel niente visto che l’Eritrea è stata inglobata dall’Etiopia, che una volta liberatesi del dominio fascista ha riconquistato la sua indipendenza e ha cominciato ad annettere i territori a lei contigui, come appunto l’Eritrea, che tornerà indipendente solamente nel 1993).

Nel Cotton Sport si ricrea il sodalizio tra fratelli Vassallo, che diventano l’incubo delle difese del campionato. I due arrivano alla squadra del cotonificio nel 1960 e quello stesso anno vincono subito il campionato. Si ripeteranno altre tre volte: nel 1962, nel 1963 e nel 1965.

Ma è in nazionale che i due, in particolar modo Luciano, danno il meglio di loro stessi.

Sul tetto del continente

Ad appena diciassette anni Vassallo è già nel giro della nazionale, ma lo spogliatoio non si differenzia molto dalle vie di Asmara: gli insulti per lui sono all’ordine del giorno in quanto italiano ed eritreo prima che etiope, e la situazione non migliora fino a quando, stufo di subire, Vassallo prende a pugni un compagno di squadra. Da quel momento gli vengono consegnate le chiavi del gioco della nazionale, che conserverà gelosamente per quindici anni, fino alla fine degli anni ’60.

Nel 1962 viene programmata la terza edizione della Coppa d’Africa (o Coppa delle nazioni africane) ed è proprio l’Etiopia dei Vassallo ad ospitare la manifestazione.

Nel 1957, prima edizione della coppa, l’Etiopia giunse seconda (su tre partecipanti: dovevano essere quattro ma il Sudafrica venne squalificato) perdendo in finale contro l’Egitto dopo aver vinto a tavolino proprio contro i sudafricani. Non fece una gran figura la selezione etiope, priva in quell’occasione dei fratelli Vassallo.

Due anni dopo la manifestazione si svolse nella Repubblica Araba Unita, nome del nuovo stato formato dall’unione di Egitto e Siria (e in seguito dello Yemen del Nord) e vide il successo dei padroni di casa. L’Etiopia si classificò terza su tre partecipanti (l’altra squadra presente era il Sudan).

Passano tre anni e si arriva al 1962 e all’edizione organizzata da Addis Abeba.

Prendono parte al torneo l’Etiopia (in quanto nazione organizzatrice), la Repubblica Araba Unita (detentrice del titolo), Tunisia e Uganda, qualificatesi agli spareggi e al loro esordio nella manifestazione.

La Repubblica Araba Unita sconfigge in semifinale l’Uganda (2-1) e si qualifica per la finale, dove ad attenderla c’è già l’Etiopia, capace di sconfiggere l’esordiente Tunisia per 4-2, ma solo dopo essere stata sotto per 0-2. La rimonta dei padroni di casa è avviata dal goal di Luciano Vassallo e chiusa dalla rete di Mengistu Worku, secondo miglior marcatore della storia della selezione calcistica etiope.

La finale, come ci si attendeva, risultò molto combattuta. Abdel-Fattah portò avanti gli arabi ma a sedici dalla fine Kidane pareggiò per gli etiopi. Nemmeno un minuto e di nuovo Fattah porta avanti i suoi. Sembra fatta per il terzo successo consecutivo della Repubblica Araba Unita (la prima edizione la vinse l’Egitto che poi diede vita alla federazione con la Siria), ma a sei dal termine Luciano Vassallo timbra il cartellino e porta la sfida ai supplementari, dove gli etiopi, semplicemente, ne hanno di più dei loro avversari.

Prima della fine del primo tempo supplementare a segnare è l’altro Vassallo, Italo, e a tre minuti dal termine trova il definitivo 4-2 Mengistu Worku.

La coppa è etiope. Sarà, fino a oggi, l’unica.

A ricevere il trofeo dalle mani dell’imperatore Hailè Selassie sarà il capitano Luciano Vassallo, che dopo aver minacciato di lasciare il ritiro della nazionale quando gli paventarono l’idea di togliergli la fascia in favore di un “vero etiope” per evitare che, in caso di vittoria, fosse un meticcio mezzo italiano e mezzo eritreo a stringere la mano al sovrano, si toglierà la più grande soddisfazione della sua carriera calcistica.

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Luciano Vassallo prenderà parte anche alle edizioni del 1965, del 1968 e del 1970 del trofeo continentale, ma la squadra non andrà mai oltre il quarto posto finale.

Quando decide di dire basta con il calcio giocato è il 1970 e il suo personale score con la nazionale etiope registra questi numeri da capogiro: 104 presenze e 99 reti.

Ancora oggi, Luciano Vassallo è il miglior marcatore della storia della nazionale etiope.

Nei suoi due ultimi anni di carriera ricoprirà anche il ruolo di commissario tecnico della nazionale: nel 1968 Vassallo venne invitato a Coverciano a seguire il corso da allenatore e ottenne il patentino assieme ai compagni corso Cesare Maldini e Armando Picchi.

Non di solo calcio vive l’uomo

Per tutta la sua carriera il calcio non rappresentò mai l’unica fonte di introiti: dopo aver abbandonato il lavoro come ferroviere, Vassallo aprì un’officina meccanica e non la abbandonò fino a quando non dovette lasciare in fretta e furia il paese nel 1974 (ma dopo aver passato qualche tempo in carcere accusato di complicità con il vecchio regime), a seguito del colpo di stato che mise fine al regime di Hailè Selassie.

Prima di lasciare il paese, Vassallo fece comunque in tempo a inimicarsi tutto il calcio etiope. Grazie ai legami rimasti solidi con il personale della nazionale e con qualche calciatore, venne a sapere che il nuovo CT, il tedesco Peter Schnittger, vero e proprio giramondo che allenò anche Camerun, Senegal e Thailandia tra le altre, era solito fare assumere ai giocatori della nazionale etiope il captagon, sostanza psicostimolante considerata dopante (e ancora oggi considerata droga, ne è un esempio il sequestro di poco tempo fa di qualche decina di chili nel porto di Beirut, come riportato da Avvenire nell’edizione online di sabato 8 gennaio 2022).

Vassallo denunciò il tutto ai mezzi di informazione e come risposta ebbe lo sdegno della federazione calcistica etiope, che lo trattò alla stregua di un reietto, dimenticandosi quanto di buono fatto da Vassallo nei suoi anni da calciatore, capitano e allenatore della nazionale.

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Come visto qualche riga fa, Vassallo si trovò costretto ad abbandonare il paese e trovò riparo in Italia, che lo accolse principalmente per i suoi passati da grande calciatore, “Il Di Stefano africano” secondo la stampa italiana. Non ebbero la stessa fortuna molti altri meticci, che trovarono da parte dell’Italia le porte sbarrate. Ma non erano stati in passato grandi calciatori, perciò non potevano avere grandi pretese.

L’ex capitano etiope trovò casa a Ostia, dove iniziò ad arrangiarsi come meccanico a chiamata, nel senso che si metteva per strada con la cassetta degli attrezzi e aspettava che succedesse un incidente per intervenire, riparare il danno e farsi pagare per il servizio.

Con il passare degli anni Vassallo ha trovato una sua stabilità economica anche nel Belpaese e ha contribuito ad aprire la scuola calcio dell’Olimpia Ostia, dove per molti anni ha allenato generazioni di giovani vogliosi di giocare a calcio su un campo vero e non per strada o sulle spiagge del litorale romano.

Lo scorso luglio è mancato suo fratello Italo, che mai raggiunse il fratello in Italia. I due però non persero mai i contatti e più volte Luciano fece visita in Eritrea al fratello, come da lui stesso riportato nell’intervista rilasciata a Storie di calcio.

Con l’Etiopia i rapporti si sono del tutto interrotti dopo che a Vassallo vennero promessi risarcimenti per le sue attività nel paese prima del colpo di stato ma che mai arrivarono nelle tasche dell’ex centrocampista.

In questi giorni di Coppa d’Africa andrebbe ricordata un po’ più spesso la sua figura, quella di un uomo capace di portare in cima al continente calcistico un paese come l’Etiopia, di vincere il premio come miglior giocatore della competizione e di far entrare il Corno d’Africa nella cartina del calcio mondiale.

A proposito di Cristian La Rosa

Cristian La Rosa. Classe ’76, ama il calcio e lo sport in generale. Segue con passione il calcio internazionale e ha collaborato con alcuni web magazine. È il fondatore, ideatore ed editore.

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